Esordire sotto il patrocinio produttivo di Robbin Crosby (R.I.P.) dei Ratt e arrivare all’undicesimo capitolo onnicomprensivo della propria carriera con un
full-length mixato da Sylvia Massy (nota per il lavoro con Tool, Red Hot Chili Peppers, Sevendust, …), può essere un buon indizio dell’attitudine dei
Lillian Axe, formazione americana che ha saputo negli anni aggiornare la propria visione artistica, non escludendo le varie forme di “ispirazione” musicale che i tempi potevano concedere ai capisaldi del suo
background.
Un approccio che può sembrare vagamente “opportunistico”, ma mi sento di escludere la “premeditazione dolosa” di tale atteggiamento, anche perché la fama del gruppo, escluso il rilevante
exploit iniziale, non è mai andata oltre una portata piuttosto contenuta, che oggi, però, potrebbe intensificarsi grazie al contratto con l’autorevole AFM e un disco, questo “XI: The days before tomorrow”, non privo di fascino.
Si tratta, infatti, di un discreto prodotto, marchiato dalla consueta abilità e inventiva chitarristica dello “storico” Steve Blaze, dalla voce potente ed espressiva di Brian Jones ed edificato su un modello sonoro piuttosto “democratico”, in cui si mescolano “classico” e “moderno”, e dove
hard-rock,
grunge,
alternative e
metal sinfonico e
progressivo s’intrecciano destando buone sensazioni complessive.
Nulla di particolarmente “destabilizzante”, sia chiaro, eppure un albo piuttosto gradevole che sarà verosimilmente apprezzato dai fedelissimi dei Lillian Axe, ormai
avvezzi alla loro tipica filosofia “evolutiva”, e finanche attirare qualche nuova categoria di estimatori, allettata da un gusto alla Savatage di talune situazioni, dall’impatto “fisico” reminiscente i “migliori” Metallica di tal altre o addirittura da stesure musicali in cui emergono scampoli di sonorità non troppo lontane, con la consueta approssimazione comparativa, da Muse, King’s X e Saigon Kick.
“Babylon” unisce forza d’urto e una caliginosa melodia che diventa quasi “soave” nel refrain, “Death comes tomorrow” “ruba” l’enfasi drammatica di Queensryche e Savatage e la incanala in un clima di notevole suggestione emotiva, in cui il crescendo vocale dell’eccellente Jones appare un contributo assai importante, mentre “Gather up the snow” sorprende ancora una volta per come riesce a conciliare durezze e iridescenti melodie con apprezzabile classe.
In “The great divide” sembra quasi di sentire i Muse
jammare con dei Bad Religion (
boom … però, certi impasti canori …) improvvisamente convertiti al
prog metal melodico, l’andamento sincopato di “Take the bullet” si conficca nella corteccia cerebrale con estrema facilità, “Blow your head” ci riporta con un certo piacere alle
power-ballad ottantiane, “Caged in” è un caleidoscopico
rock n’ roll che irrompe ma non penetra, così come l’anonima “Soul disease”, e bisogna attendere il vibrante
hard attualizzato ed
esotico di “Lava on my tongue” per recuperare la giusta soddisfazione dei sensi, blanditi, subito dopo, dall’epilogo “My apologies” (indirizzate a chi si aspettava un risoluto “ritorno” agli esordi?), un altro
slow number che unisce idealmente
sixties,
seventies ed
eighties, in una configurazione non completamente persuasiva.
Difficile prevedere I’accoglienza che il mercato riserverà ai “nuovi” Lillian Axe … per quanto mi riguarda resta un gruppo di buon valore, abbastanza creativo e vivace, probabilmente destinato a confermare anche stavolta il suo
status di “aureo comprimariato”.