Sono ormai (
ahimè) circa vent’anni che sono
pronto.
Dopo aver sottovalutato la portata di “How long” e averlo poi inseguito per molto tempo (diciamo fino alla ristampa del 2007, che in qualche modo anticipava questo ritorno), non potevo proprio farmi trovare impreparato alla seconda prova discografica della
Michael Thompson Band, uno di quei nomi di “culto” (qualche altro esempio? Balance, Orion The Hunter, I-Ten, New Frontier, gli stessi The Strand del singer originale della MTB …) a cui è tenacemente legato il concetto stesso di
rock adulto yankee.
Ed eccoci, dunque, forti di tanta
preparazione, giunti alla sospirata “prova d’ascolto” di questo “Future past”, a dover affrontare la prima
ansiogena “sorpresa” della situazione e cioè l’assenza dello storico vocalist Rick “Moon” Calhoun, così importante, con la sua laringe vellutata e pastosa, nell’economia delle pulsanti dilatazioni atmosferiche tipiche del gruppo.
Niente paura, perché il sostituto, Larry King, è uno dei cantanti “emergenti” (al pari della sua band “madre”, i Soleil Moon, che vi consiglio, se ancora non l’avete fatto, di recuperare immantinente …) più interessanti del settore e dimostra di essere capace di interpretare assai bene, con la sua timbrica affabilmente granulosa (qualcosa tra Bob Catley e John Miles, semplificando la questione …) le composizioni del disco, candidandosi come un nuovo
plausibile partner (le “affinità elettive” con Calhoun sono qualcosa di veramente difficile da replicare) per il fraseggio elegante, misurato e vibrante di Mr. Thompson.
L’albo è, infatti, una convincente prosecuzione del magistrale debutto, si offre al pubblico degli
AOR-sters come una collezione di note pregne di pathos, vitalità e raffinatezza, rigorose nello stile eppure anche sufficientemente “fresche” da non apparire supinamente “nostalgiche”, contrassegnate dalla fondamentale peculiarità di essere completamente assoggettate alla causa della “forma canzone”, alla fine autentica “carta vincente” del programma.
La magia estetizzante della Band di Michael Thompson scorre intatta fin dall’opener “High times”, un momento davvero irretente (con un pizzico di certi
Van Hagar nell’impasto), immediatamente doppiato dalle atmosfere notturne, ariose e conturbanti di “Can't be right”, mentre tocca alla
title-track aumentare ulteriormente il livello di soddisfazione
cardio-uditiva degli appassionati, sfruttando un crescendo emotivo di rara suggestione, puntellato dalla chitarra sempre vivace, aristocratica ed incisiva del titolare della testata.
“When you love someone” è un gioiellino romantico contraddistinto da un prezioso tocco
celtico degno del miglior Catley, “Here I am” tenta un avvicinamento a realtà “radiofoniche” maggiormente contemporanee, ottenendo buoni risultati, e meritano una dovuta menzione anche la melodia rarefatta e solare di “Beautiful mystery”, i tenui bagliori dell’Alan Parsons Project di "Eye in the sky" riscontrabili in “Break me down”, la melodrammatica ascensione armonica di “End game”, la soffusa e
rootsy “Gypsy road” e una discreta “Fight for your life”, che chiude in maniera sofisticata, intensa e “corale” un lavoro che comunque ha già dato in precedenza il meglio di sé.
Non rimane che spendere due parole per la rivisitazione dell’effervescente “Can't miss” (uno dei tanti
hit del debutto), conferma che una bella canzone rimane tale a dispetto del tempo, e terminare questa disamina con un
dubbio e una
certezza … non saprei dire se “Future past” è uno di quei capolavori di cui ci si ricorderà tra più di quattro lustri, ma posso affermare con solida convinzione che è un disco degno di enorme considerazione.