E’ già da un po’ di tempo che si fa un gran parlare di “retro” rock, del rock “vintage”, della versione “classica” di questa favolosa forma di espressione, tornata prepotentemente in auge anche (per un genere che ha sempre potuto contare su parecchi estimatori e che si è sempre suonato, uscendo, però, dalle “cantine” con maggiore difficoltà) nelle valutazioni della critica che “conta” e del pubblico più attento ai
trend, evidentemente oggi disponibili ad abiurare la loro continua e un po’
snobistica ricerca del “nuovo”.
La scena scandinava è diventata, in questo ambito, e a ragione, uno dei punti di riferimento dell’intero movimento, ma se non fossimo così naturalmente portati all’esterofilia, ci accorgeremmo che quella italiana non ha poi molto da invidiare (se non proprio la capacità di essere assolutamente credibile a livello internazionale) all’effettivamente brillante panorama artistico offerto dalla penisola nordica.
Prendete questi
Focus Indulgens, autori di un lavoro (il secondo … dopo un debutto programmaticamente intitolato “The past”) veramente eccellente, in cui le fuliggini del
doom si sottomettono alla grande tradizione del
progressive tricolore, creando un’onda di sensazioni che si libra dai microsolchi (digitali o tradizionalmente
vinilitici) del disco con una forza emotiva irriducibile … gli effetti emozionali e il processo vocazionale / creativo possono ricordare quello esibito da fenomeni come Graveyard, Witchcraft e Siena Root, oppure, vista la scelta di utilizzare la madrelingua, da Magnolia, Abramis Brama e Gudars Skymning, e tuttavia ho qualche dubbio che ai brillanti senesi sarà riservata la stessa attenzione conquistata dai loro
boreali colleghi.
Spero di essere prontamente smentito, soprattutto perché, come anticipato, “Hic sunt leones”, che segna il passaggio all’idioma italico, appare davvero come una felicissima interpolazione tra Black Sabbath, Pentagram e Leaf Hound da un lato, e Le Orme, PFM, Balletto Di Bronzo e New Trolls (magari quelli più caliginosi di “UT” … ricordate “C’è troppa guerra”?) dall’altro (“roba” sicuramente all’altezza, tornando all’ipotetico confronto
italo-scandinavo, di Sarcofagus, November e Rag I Ryggen …), offrendo all’ascoltatore appassionato un’ora (scarsa) di ansie, languori, turbamenti e scoppi adrenalinici, difficili da non “accogliere” in maniera completa e totalizzante.
Fascinoso fin dalla copertina, l’albo seduce immediatamente (beh,
quasi, la
title-track strumentale, che apre le immaginifiche “danze”, pur piuttosto gradevole, è leggermente meno efficace del resto del programma …) per il suo cantato evocativo e i suoi testi arcani e metafisici, immersi in un contesto ora sinistro, ora quasi schizofrenicamente carezzevole (“Il re e la quercia”), artefice di vibranti esalazioni epico -sulfuree e capace di enfatizzare con gusto e carisma le immarcescibili matrici settantiane (“Figlio di cagna”, l’inebriante soluzione
Sabs /
Purple distillata in “Calendimaggio”), senza per questo dimenticare schiumanti trame mesmeriche, elegiache ed ipnotiche (“Era autunno”) e il tocco “intellettuale” del
prog (ascoltare la
suite conclusiva “Vinsanto”, suddivisa in quattro movimenti, appagherà i fans delle soluzioni armoniche più labirintiche e imprevedibili, generose nelle diverse suggestioni stilistiche, dove l’influenza della PFM aumenta di visibilità).
In tanta opulenza, richiede ulteriore “isolamento” il
manifesto “Un profeta dal cosmo” poiché in qualche modo riesce a condensare in un unico brano le migliori prerogative del gruppo … enfasi drammatica, fantasia, nerbo e magnetismo, nel caso specifico ricordano davvero i migliori interpreti del nostro
hard-prog.
“
Qui ci sono i leoni” … diventa così un’esortazione indirizzata a chi non crede che anche tra le vigne della Valdichiana si possa aggirare una maestosa
creatura tanto (artisticamente)
temibile e (perché no?) competitiva.
Tutelarla come merita è una missione a cui non ci si può sottrarre …