“
Ciao redazione di Metal.it, mi chiamo Alessandro Bevivino, sono uno strimpellatore di chitarra e cantautore pazzo, v’invio del mio materiale […] sono delle colonne sonore immaginarie per film, una trilogia: “I Corti di verbo nero”, uno spaghetti western, “Disco Samurai”, un film di arti marziali e “Dead ballad session”, una mini colonna sonora per film horror / di vampiri […]”.
Probabilmente attingere direttamente dai volantini informativi con cui vengono inviati i dischi da recensire non è il modo
giornalisticamente migliore per introdurre la disamina di un’opera musicale, ma mi piaceva troppo la modalità schietta e bizzarra con cui questo geniale musicista friulano, evidentemente avido di continui e variegati stimoli sonori (ricordiamo la sua attività in formazioni quali The Fabulous Concerto, Tron, Cyber Cross, New Branch …), presenta la sua idea di
Sound Track (scritto proprio così, ad aggiungere un pizzico d’indispensabile ironia al progetto, la stessa, del resto, che volutamente o meno, contraddistingue spesso le tipologie filmiche omaggiate), tanto
ipotetica quanto
immaginifica ed efficace.
E per non rischiare che il termine
geniale appena utilizzato, finisca per disperdersi nel consueto mare di aggettivi e sostantivi spesso impiegati con eccessiva leggerezza (ne cito solo un altro …
capolavoro …), sottolineo nuovamente il talento e l’istrionica vocazione di Alessandro, capace di “impressionare” l’ascoltatore con pochi “mezzi” tecnici (una chitarra acustica, un basso, qualche effetto elettronico in “Dead ballad session”, oltre alla sua splendida voce) e con un’intensità espressiva davvero totalizzante, pur nella sua essenzialità
unplugged.
Riferimenti? Tanti e tutti ottimamente metabolizzati … a partire dal “
dark side of grunge” di Alice In Chains e Days Of The New e poi Danzig, Nick Cave, Leonard Cohen, Mike Patton, Fields of The Nephilim e l’ultimo Johnny Cash (quello, per intenderci, patrocinato da Rick Rubin, interessato a trasfigurare con il suo inconfondibile tocco anche “Rusty cage” dei Soundgarden o “Hurt” dei NIN), ma anche, sotto il profilo interpretativo, la seminale gamma vocale di Dave Gahan dei Depeche Mode (la loro “Personal Jesus”, il cui concetto portante viene citato nel conturbante recitato di “Paradiso”, è stata, tra l’altro, anch’essa oggetto di rilettura da parte del leggendario “Man in black” della tradizione musicale statunitense … a stabilire una sorta di
richiusura del cerchio …) , che nell’eclettica laringe di Bevivino rappresenta un’importante forma di suggestione.
In realtà, e cominciamo l’analisi da “I corti di verbo nero”, ascoltando “Flood of tears (il fiume)” il primo che mi viene in mente è il celeberrimo Axl Rose, impegnato con la sua ugola sofferta e straziata ad assecondare un improvviso bisogno di
american roots music, catturata nella sua forma più scarna e lugubre, ma è un attimo perché “Kill me (tentato suicidio)” aggredisce i sensi con quell’inquietudine che solo Layne Staley (i
breaks sono veramente esemplari) sapeva generare, mentre “Baradeida (Il coca party)” potrebbe far felici anche i fans di Glenn Danzig e “Koko B. Ware” evoca il mondo sgargiante del
wrestling attraverso una ballata stralunata e sinistra, tra un Billy Idol e un immarcescibile Elvis in acido.
“Desert race” è un gioiellino di marca Nephilim-
iana (e quindi, per traslazione inversa,
Morriconiana) impossibile da trascurare, “First november butterfly (Moth)” aggiunge all’emozionante impasto scabrosi bagliori alla Tom Waits i quali sfociano nel vortice oscuro e spietato del “Verbo nero (L’esperto)”, dimostrazione evidente di una tensione comunicativa non arginabile nemmeno dalle difficoltà linguistiche dell’italiano.
Passiamo ora brevemente a “Disco samurai” nel quale l’animo visionario e beffardo del nostro si trasferisce dai
canyon dell’Arizona (o dell’Italia centrale o della Spagna, abituale cornice dei
western de noantri) alle ambientazioni epiche e melodrammatiche delle pellicole di John Woo & c., mantenendo intensità e angosce da
Alice In Catene (in “Black water” - in cui affiorano pure scorie di Everlast - e “My celebration”, soprattutto, laddove “Primitive nature” e “This is for you”si offrono come escursioni armoniche dal temperamento bucolico e schizofrenico) anche nel nuovo contesto.
Piccolo cambio stilistico, infine, per i tre brani delle “Dead ballad session”: strutture sintetiche ipnotiche, minimali e inquietanti fanno da sfondo alle
vocals (nuovamente in madrelingua) di Alessandro, ora recitate ora cantate con fare declamatorio e corrosivo, creando un clima cupo, spettrale e paranoico in grado di trasmettere, ancora una volta, un’importante carica emozionale.
Un lavoro degno di grande considerazione e di stima, dunque, credibile in tutte le diverse sfumature espressive (la mia preferita rimane comunque quella alimentata da tenebrose seduzioni
country n’ blues … me lo immagino Bevivino stesso nelle vesti di mefistofelico e letale predicatore Cash-
iano, che con cappello e soprabito neri si staglia austero sull’arroventato tramonto
yankee …) per un artista che sono certo, con o senza l’attenzione della discografia “accreditata”, continuerà a esternare tutta la sua irrefrenabile urgenza creativa.
Non resta che compiacersi e attendere con trepidazione nuovi sviluppi.