Mai come questa volta la mia sensazione è stata confermata dai fatti. Troppa fretta di mettere il disco sul mercato, tanto da anticipare l’uscita di un paio di mesi; un eccessivo clamore mediatico e promozionale; una canzone d’assaggio tutto sommato “normale”; ed il sottoscritto ha fiutato puzza di bruciato. Tombola.
Ma andiamo con ordine. Inutile ripetere tutte le cose già dette nella recensione del singolo “Blessed night” (che spero abbiate letto…nda), perciò condensiamo: questo è il primo disco ufficiale dei
Saint Vitus da ben diciassette anni. Parliamo di una delle più famose cult-band nella scena doom e non solo, ennesimo esempio di formazione glorificata molto tempo dopo il suo scioglimento. Chi, come me, li aveva osservati dal vivo all’indomani della attesa reunion, non poteva nutrire dubbi sul fatto che Wino e soci fossero in buonissima forma, ancora in grado di dare lezioni alla maggioranza dei loro moderni epigoni. Cosa che continuo a pensare, seppur con una punta di amarezza per questa operazione commerciale che gioca un po’ troppo sulla fedeltà dei fans e sul fatto che, dopo così tanto tempo, avrebbero comunque acquistato qualsiasi cosa targata S.V.
Il gruppo americano non ha mai realizzato lavori corposi, basti vedere i primi album, ma questo è così striminzito da dover considerarlo un Ep e niente più
(con relativo prezzo…nda). Se ai trentatre minuti togliamo i due strumentali, “Vertigo” e “Withdrawal” quest’ultimo uno stucchevole esercizio di distorsione chitarristica, restano cinque brani per circa venticinque minuti. Anche se la musica non si giudica “un tanto al chilo”, rimane tuttavia una miseria per una band che si ripresenta dopo un’eternità.
E ad essere onesti, le canzoni “vere” si rivelano buone ma non strabilianti, perlomeno tenendo conto delle capacità di tali veterani.
“Let them fall” è pezzo solido e cadenzato, fa presa per la sua cupa semplicità, ma l’atmosfera è più da The Hidden Hand o Place of Skull, due dei tanti progetti del chitarrista/cantante, che non da S.V.
“The bleeding ground” è per me la migliore del lotto, qui si respira tutta la componente doom-anarchica degli anni d’oro. Un incedere lento e depresso, dal quale emerge l’acida follìa della lead di Chandler tra riff mesmerici ed assolo quasi isterico. Da notare che il chitarrista è uno dei pochi superstiti dell’era hippie-Lsd, compreso il look da capellone-sballone, e che lo strano titolo del disco pare riferirsi ad un tipo di psicofarmaco che allietava le sue giornate in gioventù.
Di “Blessed night” ho già detto, matrice sabbathiana ma di maniera, mentre la tenebrosa “The waste of time” segnala l’ottimo contributo di Henry Vasquez, batterista di scuola più recente rispetto all’originario Acosta, purtroppo deceduto nel 2010. Si chiude con “Dependence”, altra doom-song di livello dove una chitarra psichedelica impazza sulla ritmica mortifera.
Inconfondibile la voce dell’iper-tatuato Weinrich, anche se gli anni lo hanno reso più compassato rispetto ai lontani esordi.
Che dire, mi aspettavo un ritorno discografico più consistente. Pochissimi brani e con luci ed ombre, dai Saint Vitus è lecito pretendere qualcosa di meglio. Comunque gli appassionati lo compreranno per godersi il tipico sound maligno e distorto del quartetto, ma mi auguro che la prossima uscita sia meno anemica e frettolosa.
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