"Color's no matter, we're catching mice, sumptuous mice, all nice."
E' il giorno di Pasquetta e la vita scorre pacifica in quel delle Langhe, poi accade qualcosa. Qualcosa di brutto. Prendete un sacchettone letteralmente COLMO di promo fisici. Prendete il vostro capo che vi dice: "Toh, divideteveli" e la faccia del vostro collega che dice "Staminchia", senza proferir parola. Ecco, questo è l'incipit della storia che mi ha permesso di conoscere e apprezzare i
Teodor Tuff, gruppo norvegese alle prese con la loro prima fatica discografica sulla lunga distanza.
Perchè li ho scelti nel mucchio selvaggio? Un'etichetta, "Featuring Martin Buus".
Martin Buus, per chi non lo sapesse, è il chitarrista dei
Mercenary, una delle band più apprezzate in assoluto dal sottoscritto, fin dai tempi del loro esordio "Everblack", e averlo ospite sul loro disco, seppur per una breve apparizione, mi è bastato per decretare MIO l'album dei Teodor Tuff.
C'è da dire che come moniker potevano trovare qualcosa di meglio: Teodor Tuff infatti suona infatti abbastanza ridicolo, ma di fronte alle abilità tecniche e compositive del gruppo il nome passa decisamente in secondo piano.
Si perchè i norvegesi sono davvero un gruppo della madonna, concedetemi il passaggio nella blasfemia: tecnicamente ineccepibili, basso e batteria puntualissimi e rocciosi, due chitarristi fenomenali, in particolare
Christer, uno dei 3 Harøy presenti sul disco (4 in realtà se consideriamo anche Tonje) e una voce di assoluto prestigio, che fin dalle prime note di "
The Last Supper" mi ha affascinato e trascinato in un vortice infinito, e che anche dopo 1 mese di ascolti ripetuti non è riuscita ad annoiarmi e stancarmi.
"
Soliloquy" è infatti un disco completo e compatto, di difficile collocazione stilistica, figlio di incroci incestuosi tra generi diversi, dal power melodico al prog all'heavy classico, che si fondono saggiamente tra di loro per produrre una miscela esplosiva, che a più riprese mi ha ricordato gli
Anubis Gate e gli episodi più melodici dei già citati Mercenary. Si va infatti da canzoni più spiccatamente power quali
"Delusions of Grandeur" ad altre in cui i cambi di tempo la fanno da padroni, quali
"Hymn (For an Embattled Mind)" o la già citata
"The Last Supper", che se la gioca per la palma della migliore del disco con
"Deng's Dictum", canzone che ad un primo impatto può suonare ripetitiva e quasi infantile, ma che a lungo andare si rivela in tutta la sua particolare bellezza (e dalla quale è tratto il verso all'inizio della recensione).
Ma il raffronto con gli Anubis Gate non finisce qui: il paragone con i danesi si faceva sempre più pressante nella mia testa, in particolare per una produzione cristallina e perfetta qual'è di solito quella del talentuoso
Jacob Hansen. Mi viene un dubbio: vuoi vedere che c'è il suo zampino anche qui e che questi
Teodor Tuff siano davvero benedetti dall'alto? E basta un rapido scorcio al booklet (tra l'altro curatissimo e di ottimo livello qualitativo) per rendermi conto che la mia intuizione era veritiera, essendo stato "Soliloquy" mixato proprio negli Hansen Studios.
Non solo, Jacob Hansen ha anche fornito il suo sempre eccellente contributo vocale su due tracce, "
Mountain Rose" e la conclusiva "
Tower of Power", della quale trovate anche il video in calce.
Ma la lista degli ospiti su questo disco non si ferma certo a Buus e Hansen: in
"Heavenly Manna" infatti, traccia dal sapore "teocratico" (if you know what I mean), oltre a Buus si esibiscono in un pregevole assolo anche
Jeff Waters degli Annihilator e
Mattias Eklundh dei Freak Kitchen, ad elevare ulteriormente il livello di una canzone già di per se pregevole.
E come se non bastassero 3 Harøy, in diverse tracce del disco fa la sua comparsa anche la bella
Tonje, la cui voce angelica ben si sposa con quella splendida del già citato Terje, il cui timbro come se non bastasse è incredibilmente simile a quello dell'ormai pluri-citato Jacob Hansen.
Stop? Neanche per sogno! Nella già citata "Heavenly Manna" e in
"Addiction" infatti troviamo anche
Ida Haukland, bassista e cantante dei
Triosphere, che offre una prestazione mostruosa, dimostrando un potenziale vocale incredibile, sconosciuta ai più ma ben nota agli estimatori della sua band madre. Se vi dico che in "Heavenly Manna" assomiglia vagamente a Dio e a Bob Catley ci credete? Credeteci.
Quasi dimenticavo: aggiungete al tutto anche una intro di un paio di minuti interamente lirica, con 3 soprano e 2 contralto, e avrete ancora di più un'idea delle potenzialità espresse dai norvegesi in questo disco.
In conclusione un album davvero variegato e realizzato in maniera ineccepibile sotto ogni punto di vista, anche da quello dei testi, incentrati sull'incidenza della Chiesa e della religione nella vita di tutti i giorni, in una disamina attenta e spesso crudele. Tutto ciò a dimostrazione che i
Teodor Tuff, a discapito della freschezza a livello di presenza sul mercato discografico, sono già ampiamente maturi e pronti a fare il cosiddetto salto di qualità. Chi l'avrebbe mai detto che quella prima pescata dal sacchettone mi avrebbe dato così tante soddisfazioni?
Quoth the Raven, Nevermore..