Forse, se
Violet Gibson il 7 aprile 1926 avesse fatto centro e Benito Mussolini avesse ricavato danni più seri di un graffio sul naso, le cose poi sarebbero andate diversamente, così come, volendo sfruttare un parallelo alquanto
spericolato, se il gruppo fondato da Michelangelo Naldini e da Tony La Blera fosse nato negli USA, in Canada o in Inghilterra, oggi potrebbe contare su un seguito e un credito decisamente superiori.
Per i nostri emiliani, in realtà, c’è ancora “speranza”, sono all’esordio e hanno cominciato da poco a diffondere la loro “cosa”, tramite la benemerita opera di patrocinio targata logic(il)logic Records / Andromeda Dischi / Atomic Stuff e questo anche qualora la denominazione della
band fosse più “banalmente” ispirata ad un eventuale modello viola di chitarra, scelto tra quelli disponibili nel ricco catalogo del noto marchio americano di sei corde.
Analizzando la situazione esclusivamente da un punto di vista artistico, per ambire ad una conquista “definitiva” del mercato e del pubblico, credo però che i nostri dovrebbero anch’essi, continuando nella parafrasi iniziale, “aggiustare la mira” e lubrificare un po’ meglio le loro “armi” (rammentando che la pistola dell’attentatrice irlandese pensò bene d’incepparsi dopo il primo sparo …) perché la loro miscela di
heavy metal,
grunge,
hard,
punk e capisaldi di rock “tradizionale” (Beatles, Queen, …) ha sicuramente già parecchi meriti, eppure appare a volte ancora un po’ troppo
lineare nel suo scorrere, pur potendo contare su un’adeguata dose di creatività.
Cercherò di spiegarmi meglio … ad “American circus” manca il guizzo
risolutivo, le sue melodie e le energie che trasmettono piacciono, ma non “conquistano” in maniera irrimediabile, lusingano i sensi senza “sottometterli”, ti propongono una forma di appagamento alquanto piacevole che non crea “dipendenza” … beh, non so se sono riuscito a rendere la situazione più chiara, ma quello che è certo è che nonostante tutto la strada intrapresa è quella giusta, ricordandosi, inoltre, che si tratta di un debutto e che anche nelle frenesie e nella “perfezione scientifica” del mercato discografico “moderno”, è legittimo concedere pure agli “emergenti” di valore un pizzico di
naturale inesperienza e
fatale sfocatura compositiva.
Insomma, se riuscite a pensare ad un
mix di Afterhours (la voce di Matteo Brozzi ha un che di Agnelli-
ano), Alter Bridge, Metallica, Saigon Kick, Alice Cooper, Godsmack e Bad Religion, potrete avvicinarvi abbastanza alla proposta del quintetto faentino, e se la cosa vi “stuzzica” come dovrebbe, il suggerimento è di affidarsi con tranquillità a “Go Ahead”, alla
title-track, alla metallica “Original sinner” e alla poderosa “In my head”, alla vibrante "Forget about the rain” (con suppletivi bagliori di GnR nell’impasto) alla sinuosa "The reason to be God” o ancora allo spirito acustico di “She feels alive” (qualcosa tra Winger, AIC e Queen) e di “From the moon to your feet”, gratificata da un suggestivo afflato
psichedelico-malinconico.
Se poi volete un aroma sonoro magari maggiormente “sfizioso” e tuttavia vagamente stucchevole c’è sempre la
cover di Stevie Wonder “Superstition”, le adulanti, grintose e
anthemiche "Game of sorrow”, “I wish I could” e "Your balls on fire” e pure la monolitica “Parasite”, tutta
roba abbastanza gradevole che nondimeno presumibilmente vi lascerà un vago retrogusto di
lezioso sulle papille
audio-gustative.
Come anticipato, il tempo è un prezioso alleato dei Violet Gibson e a differenza della donna che avrebbe potuto cambiare le sorti del mondo (morta nell’indifferenza generale dopo anni di ospedale psichiatrico), noi saremo qui a
vegliare su di loro e a
sostenerli nel tentativo di fornire un altro autorevole rappresentante italiano al
rockrama internazionale.