Ai tempi del precedente “Love would never work” avevo ventilato la ricerca di “
validi compagni di viaggio” lasciando intendere il loro reperimento come un plausibile beneficio per una condizione artistica abbastanza ricca d’immaginazione, ma troppo asettica e confusa per convincere completamente.
Laura Liparulo ha ignorato il suggerimento e continua a portare avanti la sua concezione musicale attraverso la testata
Loneload in assoluta solitaria, e forse, da un certo punto di vista, la scelta può pure risultare condivisibile, perché è ormai chiaro che la cantautrice e multi-strumentista laziale ha una personalità tale da rendere verosimilmente
complicata la condivisione della sua bizzarra visione creativa con altri musicisti, preferendo addossarsi completamente la gestione degli
oneri e degli
onori del progetto.
Il problema è che, ancora una volta, anche in questo “Steam punk” siamo di fronte ad una bislacca e disorganica esposizione concettuale, espressa attraverso un indistinto miscuglio di
post-punk,
metal (soprattutto nelle strutture chitarristiche) ed
elettronica, privilegiando in particolare quella d’
antan, che rimanda, non senza un pizzico di
malinconia, direttamente ai primordi della Nintendo o addirittura alla pionieristica Atari.
Suggestioni “elegiache” a parte, il disco non riesce a persuadere fino in fondo, mostra qualche spunto interessante nell’intro “Inferiority complex walzer”, in “The screen”, in “Alan Turing”, in "Free software song” (scritta in origine da Richard Stallman, antesignano del cosiddetto “Free software movement”, un tema caro alla nostra Laura) e ancora in "Regeneration”, mentre altrove si perde in esecuzioni imprecise e incompiute, magari curiose e tutto sommato gradevoli (il “Can can” di Offenbach in versione grintosamente “futuristica”) oppure “eticamente” discutibili (“dedicare” un brano ad “Anders Breivik”, può essere valutato come una provocazione un po’ gratuita …), ma comunque mai davvero “a fuoco”.
L’ultimo appunto della disamina lo merita la voce della Liparulo, una sorta d’interpolazione timbrica tra Courtney Love, Peaches e Brody Dalle dagli accenti fascinosi e tenebrosi, al momento, però, ancora un po’ troppo approssimativa per non concorrere alla valutazione insufficiente assegnata all’opera.
Tante idee e un’apprezzabile urgenza comunicativa sono buttate sul tavolo, sparse come le tessere di un visionario
puzzle che s’intuisce potrebbe garantire notevoli soddisfazioni … attendiamo ancora una sua coerente composizione.
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