Giunti al terzo capitolo della loro discografia, i
Baroness danno una netta sterzata in direzione di un elegante alternative rock venato di prog settantiano, abbandonando forse per sempre i rigurgiti sludge-stoner del recente passato. Parlare di proposta “commerciale”, come si è letto in giro, mi sembra comunque ancora eccessivo. In fondo parliamo di un doppio album per settanta minuti di musica; di canzoni meno semplicistiche di quanto può sembrare al primo ascolto; di temi che, a parte il singolo “Take my bones avay”, non sembrano alla portata di un pubblico privo di cultura rock. Però è indubbio che se un disco come “The hunter” dei Mastodon è parso troppo melodico, ma pur sempre in orbita heavy metal, il presente “Yellow and green” può al massimo rientrare in un’ottica rock molto ampia, che va dai Pink Floyd di “Wish you were here” ai The Black Keys, dai Foo Fighters ai The Black Angels, solo per citare alcuni dei nomi evocati dai tanti brani di questo lavoro.
La personalità del gruppo di Savannah rimane comunque forte. Le canzoni non sono affatto un collage di idee pescate quà e là, anzi i due dischi mostrano un’identità precisa e coesa ma diversa l’uno dall’altro. “Yellow” è il colore e l’aspetto solare dei Baroness, dove la forza ed il dinamismo sono messi al servizio degli intrecci vocali limpidi ed evocativi, mentre con “Green” si entra nell’ambiente più bucolico e rarefatto mai esplorato dagli americani, nel quale l’impronta floydiana diventa maggiormente evidente.
Comunque, pur su coordinate ben diverse dall’acclamato “Red album”, brani come “Cocainium”, “Sea lungs” e l’emozionante “Eula”, restano momenti di alta qualità musicale con bagliori di grande classe. Nello stesso tempo le ballate ariose e delicate, dal taglio quasi cantautorale, della seconda parte del lavoro, vedi “M.t.n.s.”,”Foolsong”, l’acustica “Stretchmarker”, ecc, ben difficilmente potranno fare felici i fans della prima ora.
E’ un’opera da ascoltare a fondo, lasciar decantare qualche settimana, poi risentire ancora più e più volte. Come si fa con i libri di spessore, che riletti a distanza di tempo offrono quasi sempre nuovi livelli di lettura. Intanto, il gruppo americano rimarrà vittima di un’antica contraddizione: se proponi sempre le stesse cose, sei monotono e pecchi di capacità evolutiva; ma se cambi strada e tenti qualcosa di nuovo, sbagli comunque e l’accusa è di aver ceduto la purezza artistica alle sirene del mercato.
Chiudiamo la lunga dissertazione con un curioso pensiero: i Baroness sono partititi dal colore rosso, quello del sangue, offrendoci il loro disco più massiccio, col blu le trame si sono complicate, col giallo è arrivato il momento della melodia ed il verde ha segnato i passaggi più eterei e sognanti. Dunque, la prossima volta quale tonalità ci attende, ma soprattutto che significato le darà questa imprevedibile, ma a suo modo creativa ed innovativa formazione?
Non è ancora stata scritta un'opinione per quest'album! Vuoi essere il primo?