Hollywood, Los Angeles, California. Uno dei luoghi del pianeta dove si concentra più ricchezza, glamour, esibizionismo, narcisismo, grossolanità, sperpero e perversione. Il paradiso delle luci abbaglianti, dei lustrini e delle paillettes, ma anche regno di smog e cocaina, puttane e pusher, malessere suburbano e sogni spezzati.
Gli
All Hail the Yeti (?!?) nel 2006 sono partiti da qui, guidati dal canadese Connor Garrity, noto tattoo artist ed ora anche cantante di una band. Esteticamente, il quartetto è una impressionante miscela di barbe, tatuaggi, capelli lunghi e piercing estremo, mentre per comprendere la loro attitudine è sufficiente lasciare che il vocalist descriva l’atmosfera di un loro“normale” live-show: “..sangue, vomito, sputi, risse, risate, ossa rotte, crani sfondati, stage diving, spogliarelli, droga, alcool, caos..”.
Dopo aver pubblicato l’Ep “Trees on fire with songs of blood” (2010), le apparizioni sul palco insieme a nomi come Soulfly, Fear Factory, Suicide Silence, hanno fatto intendere che erano già pronti per una dimensione meno “locale”, perciò adesso esce il loro album d’esordio omonimo. Ovviamente si tratta di heavy bellicoso, d’assalto, potente e selvaggio, con venature vagamente swamp-southern che li avvicinano a Down, Brand New Sin, Cancer Bats, ecc, ma anche il contorno affilato di certo metal contemporaneo. Sebbene punti su un sound prettamente muscolare e cattivo, vedi il cavallo di battaglia dei concerti “Deep creek”, la formazione non dimentica di inserire ganci e cori melodici che portano un po’di ossigeno nelle trame serrate di “After the great fire”, “The art of mourning”, che farebbe godere Anselmo, Keenan e soci, o “Ruby ridge”, offrendo quel pizzico di varietà che necessita anche ad una proposta di questo tipo. Ci sarebbe ancora la drammatica “Judas cradle” in chiusura del disco, ma dopo i cinque minuti di durata del pezzo ne seguono quindici di pura natura, con cinguettii, fischiettii, gorgheggi ed altri piacevoli suoni animali. Piacevoli se guardo un documentario del National Geografic, molto meno utili se ascolto il primo album di quattro ceffi barbuti e tatuati.
A parte questo, sotto la scorza spessa e granulosa del lavoro manca ancora qualcosa in fatto di personalità, pur se le idee non mancano e la direzione è quella giusta. E’ probabile che il pastoso macigno metal, sludge, hardcore, blues, southern dei losangelini, appaia ancora meglio rifinito alla prossima occasione. Per il momento, buon disco per chi ama l’heavy a tinte (molto) forti.
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