Sempre più spesso l’analisi del lavoro di una formazione dedita al
prog-metal si riduce sostanzialmente ad una
contesa tra Dream Theater e Porcupine Tree, da sviluppare nella scelta di quale dei due seminali colossi del genere sia stato più influente nella stesura e nella realizzazione del prodotto in questione.
Più raramente capita d’incontrare gruppi capaci di concepire nuovi ed interessanti paesaggi sonori, contaminati da tante diverse realtà musicali in maniera carismatica e ispirata, in cui il contributo di un non indifferente
quid creativo riesce a proiettarli in quel nobile ambito artistico da cui è bandita ogni forma di qualunquismo stilistico.
Gli
Everwood, band ungherese al terzo
full-length, si avvicina “pericolosamente” a quest’ultima categoria d’interpreti, sfornando un disco che non esito a definire un gioiellino di moderno
hard-rock progressivo, dove gli influssi (quelli dei monumenti già citati, assieme a Yes, Styx, Kansas e poi ancora Prophet, Enchant, Pain Of Salvation, Slaves To Fashion e parecchi altri …) sono funzionali alla realizzazione di un caleidoscopio sonico di enorme suggestione, elaborato con la classe, la versatilità, la vocazione e la cultura di chi non si adagia nell’allineamento a posizioni dominanti e cerca con ogni mezzo di fornire una “propria” versione dei fatti.
Tecnica ineccepibile e non ostentata, una notevole propensione melodica e una mente “aperta”, lucida e sensibile (il
concept lirico ruota attorno al tema di una disamina spirituale del ciclo dell’esistenza umana), rappresentano le fondamenta da cui si dipana un percorso emotivo contemporaneamente mutevole e istintivo, sospeso idealmente tra il passato e il presente della porzione più “illuminata” del rock, ratificando per “Without saving” un senso di piacere istantaneo, che accresce in maniera esponenziale man mano che le sue spire vi avvolgeranno completamente con la reiterazione degli ascolti.
L’inizio è
incoraggiante e tuttavia probabilmente non del tutto rappresentativo di ciò che ci aspetta: “Rain” manifesta le velleità di una forma pulsante di
metallo progredito, dominato dalle scintillanti tastiere di Attila Tanczer, dalla bella voce di Matyas Haraszti e da una contagiosa e solida struttura armonica, eppure è solo con la successiva “Never trust a snake” che comincia a delinearsi la vera identità della
band magiara, in questa circostanza alimentata da una melodia ancor più insinuante e da un gusto “estetico” tale da poter addirittura tentare sconfinamenti nell’esclusivo mondo del
mainstream.
Con “Desert sun”, poi, il “gioco” inizia davvero a farsi “serio” … gli aromi arabeggianti inebriano i sensi, mentre la portante melodica solca territori raffinati e aristocratici … il risultato è una sorta di esotico
prog-AOR dagli esiti veramente appassionanti.
Emozioni a profusione arrivano anche da “Free” e da “Quit without saving”, un oblio drammatico, intimo e sentimentale ordito sulla struggente laringe di Haraszti e su un suggestivo arrangiamento orchestrale, dalla splendida “Experience this”, un esperimento di
pomp per il terzo millennio perfettamente riuscito e da “Walls”, una straordinaria e inquieta dissertazione
oriental-doom-prog emotivamente attanagliante.
Chi cerca un superiore coefficiente di aggressività e imprevedibilità la potrà trovare in “Can't find”, in cui sembra
quasi di ascoltare dei System Of A Down
barocchi, mentre "Make me famous” riserva un analogo trattamento per i Metallica, aggiungendo alla brillante prospettiva, forse in ossequio titolo del brano, un’imponente dose di affabilità adatta alle programmazioni radiofoniche contemporanee.
Lo strumentale “Pieces” estende la sontuosa attitudine del gruppo anche a questa istituzionale soluzione espressiva, “My own vision” è un avvincente numero di
hard-rock interstellare straniante e fervido (bello il
synth solo e il vibrante tocco Rush-
esque) e anche “Insecure”, che invade i terreni
pop-rock con la consueta classe e distinzione, contribuisce a rendere gli Everwood una delle più significative e vitali realtà del settore, di quelle che sanno ancora abbattere certe piccole barriere e parlare tanti linguaggi in modo intenso, intelligente e accattivante.
Ora sta a voi non lasciare che tutto questo ingegnoso potenziale finisca per disperdersi nei meandri del mercato discografico attuale, certamente più generoso nell’offerta che nelle idee.