A forza di “correre”, nella vita, nel lavoro e finanche negli
hobbies, si finisce irrimediabilmente per lasciare indietro qualcosa di “importante” e se in alcune di tali situazioni il “risanamento” è oggettivamente difficile, per altre l’operazione di “recupero” è piuttosto semplice.
Attività che oggi mettiamo in atto per questo corposo
mini-album degli
Houston, colpevolmente trascurato ai tempi della sua uscita, perso nella marea di pubblicazioni che ci offre quotidianamente il mercato “globale” del disco.
“Relaunch” merita (ri)considerazione poiché ci consente di valutare simultaneamente la cultura e la vocazione di uno dei gruppi “rivelazione” della scena melodica contemporanea, nella circostanza alle prese con una manciata di
hit provenienti direttamente dai loro verosimili “testi sacri”, affiancati da un pezzo nuovo e da un paio di trascrizioni acustiche di brani tratti dal loro acclamato esordio.
Cominciamo dalle
cover versions, terreno minato per l’effetto
karaoke sempre in agguato e qui ancora più insidioso, vista la scelta raffinata e impegnativa degli artisti da onorare, una circostanza sicuramente da elogiare, ma poi anche da sostenere come si deve.
Niente paura, evidentemente gli scandinavi hanno la convinzione e la determinazione (oltre che i “mezzi”, un attributo di cui spesso ci si dimentica, dandolo quasi per scontato …) per non “vacillare” di fronte ad una “Runaway” dei Dakota, un “classicone” da intenditori reso senza timori reverenziali e con una sensibilità davvero marcata, esibente la misura di una band molto
devota e tuttavia non
sottomessa.
Cosa dire di “Carrie”, se non rimpiangere quando Michael Bolton concedeva il suo timbro negroide al “calor bianco” (Beppe Riva
docet …) a brani come questi, e subito dopo plaudere al modo in cui Hank Erix e i suoi
pards affrontano la vibrante e suadente materia.
“Brief encounter” rende omaggio ad una delle formazioni più trascurate (fortunatamente rivalutate negli ultimi tempi …) del panorama melodico, gli Airrace, e lo fa con un buongusto che ottiene l’
imprimatur attivo del chitarrista della rinata
band britannica Laurie Mansworth … insomma, un’altra prova d’esame superata brillantemente.
Per quanto mi riguarda, però, il vero
test da far “tremare i polsi” sta per arrivare e si chiama “Don’t you know what love is”: pur sostenuto dalla presenza del venerabile Mark Mangold, c’è un’ombra di leziosità in questa rielaborazione dei mitici Touch, comunque da considerare piuttosto riuscita, tenuto conto del peso “massimo” che assegno al brano all’interno della mia “parabola” di
musicofilo.
Valicata una “cima” ecco che ne arriva subito un’altra, rappresentata da “Don’t ever wanna lose you” dei
pomp cult-heroes New England e interpretata dagli Houston con la consueta classe e con una invidiabile disinvoltura, la stessa che consente a “Didn’t we almost win it all”, portata al successo da Laura Branigan (sissignore, quella della versione anglofona della Tozzi-
ana “Gloria” e della variante al femminile della Raf-
iana “Self control” …), di offrirsi con tutto il suo carico di romanticismo tipicamente
eighties al pubblico del terzo millennio, finendo per conquistarlo.
Ottime vibrazioni, infine, arrivano da “Without your love”, delizioso inedito ad elevato coefficiente di passionalità scritto dal mentore Ricky Delin e cantato in coppia con Elize Ryd degli Amaranthe, e dagli adattamenti “a spine staccate” di “Truth slips” e “1000 songs”, un “roba” da brividi assicurati anche nella toccante purezza della voce umana e nei suoni cristallini e malinconici di un pianoforte, ad ulteriore conferma del valore di un disco (e di un gruppo) che sarebbe stato davvero “criminale” ignorare.
Compiuta la necessaria “missione” di “bonifica” e “rilancio” non ci resta che attendere, con maggiore “serenità”, importanti novità dagli “spaziali” Houston, sottolineando doppiamente con la matita rossa (lo so, … sono “antico” … e me ne vanto!) il loro nome sul taccuino riservato agli “emergenti” di spicco.