Apparentemente la novità più stimolante di quest'ultimo lavoro degli Alabama Thunderpussy doveva consistere nel passaggio di microfono tra il "vecchio" Throckmorton ed il carneade Johnny Weills, un cambio d'importanza non esattamente epocale ma effettuato comunque senza particolari problemi. Anzi, Weills pare più versatile del suo predecessore, gran urlatore ma piuttosto monocorde, mostrando un tiro cattivo e rugginoso in linea con le esigenze del Relapse-style, capace però di ammorbidirsi all'occorrenza per tenere in vita quel sottile spirito southern da sempre insìto nella musica degli ATP. Ciò ha consentito una duttilità di schemi, una varietà di atmosfere, che finora la band di Richmond non era stata in grado di esprimere per intero.
Questo è il vero ed eccitante progresso che anima "Fulton hill", un songwriting assai più dinamico e flessibile che in precedenza, maggior caratterizzazione e fantasia nei brani, soprattutto la raggiunta consapevolezza che una coppia di chitarre non serve solo a macinare riffs granitici, ma può e deve garantire respiro solistico a situazioni altrimenti eccessivamente opprimenti. Finalmente Larson e Lake hanno sciolto le briglie alle sei corde e come ragazzini alle prese con un nuovo gioco si sono lanciati nell'uso massiccio e continuo degli assoli, più numerosi in questo disco che nell'insieme di tutto il resto della produzione ATP. Così un elemento chissà perchè ignorato e quasi sconosciuto in passato diviene punto di forza nel presente, fornendo uno spunto di rinnovamento e miglioramento senza snaturare le caratteristiche peculiari della formazione.
Anomalo l'inizio dell'album, "Such is life" è uno strumentale teso e tempestoso innervato da belle lead fumose e stoner, uno scenario fortemente gravido di tensione che si scarica nella successiva "R.R.C.C." dove rientriamo nella consueta violenta aggressività dell'heavy rock che dilania le carni, la classica pesantezza ATP fatta di metal, stoner, ruvidità anarcoide e spruzzata qua e là di feeling sudista da serata di ubriacature e linciaggi. Una coppia di brani tosti e convincenti che sembrano messi apposta per confrontare il volto tradizionale e quello più innovativo della band.
Ma è l'intero lavoro a filare alla grande. Questa volta difficilmente capiterà all'ascoltatore distratto di confondere i brani in un vortice di furia sempre uguale. Il flusso di potenza viene spezzato da inattese ballate intime e sofferte che non fatico ad immaginare parto di Eric Larson, il quale ce le aveva anticipate nel suo ottimo disco solista ("Alone again","Do not"), troviamo sferzate acide che insaporiscono mazzate straight-rock foderate d'acciaio ("Bear baiting"), l'eredità dei Lynyrd vista nell'ottica dei nipotini bastardi ed indisciplinati ("Three stars"), le svisate chitarristiche che finalmente bilanciano lo spessore grezzo dei classici monoliti Virginiani come al solito fragorosi ed asfissianti ("Wage slave","Sociopath shitlist").
Il manifesto definitivo della sudata e ruvida carriera ATP si materializza nei tredici minuti della acid- jam "Struggling for balance". Dolore e fumo coprono il campo di battaglia tra cadaveri decomposti e spade spezzate, una lacera bandiera Confederata garrisce solitaria al vento ed il brano cresce lentamente esprimendo umile maestosità con urla disperate, solismi lancinanti e ritmiche massicce nella pura tradizione del rock duro Americano.
Se ancora cercate i veri rappresentanti della new-wave heavy rock a stelle e strisce, completamente fuori dalle mode imposte dal mercato ed encomiabili per onestà d'animo e potenza selvaggia ed essenziale, non potete ignorare un episodio come "Fulton hill". Avendo seguito gli ATP dagli esordi sento di potermi sbilanciare dicendo che questo è il loro album più completo, corposo e fantasioso. In sostanza il migliore. Per i loro fans è acquisto doveroso, per gli altri si può cominciare proprio da qui.
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