Arriva a pochi giorni dalla tragica scomparsa del chitarrista Markus Berger (morto all’inizio dell’anno per malattia a soli 39 anni) il terzo album dei Dante, prog metal band teutonica.
Un disco governato da una voce cattiva e potente ma non sempre precisa, metal fino al midollo ma con quella venatura progressive che lo rende speciale, difficile, accattivante. E’ vero, in alcuni casi sembra di trovarsi di fronte a una sorta di Vanden Plas mancati, sembra quasi che a un passo dalla linea di porta il gol sia stato fallito.
Ed è questa la sensazione che ti accompagna per i ripetuti ascolti, insieme a una certa noia che purtroppo dopo un po’ inizia a fare capolino.
Come scriveva il collega Stonerman anni fa parlando del precedente Saturnine, “il gruppo scivola con troppa frequenza nel famigerato tranello della ridondanza superflua e nell’autocompiacimento prolisso”. Come spesso accade a chi vuole suonare prog metal, dunque, la mano sfugge e la voglia di stupire arriva all’ascoltatore come una mannaia sugli zebedei, troncando sul nascere ogni speranza di aver trovato il disco dell’anno.
Accanto a soluzioni davvero pregevoli si trovano così, scorrendo le varie tracce, scelte di songwriting quantomeno discutibili, che abbassano di parecchio il voto in pagella.
Non so se i ragazzi dei Dante avranno la forza e la voglia di continuare dopo la morte del loro compagno di viaggio, ma le potenzialità per fare bene ci sono. C’è da migliorare molto, ma tre dischi non si buttano via come se nulla fosse. Da parte mia, può arrivare solo un augurio per un futuro in cui il dolore lasci spazio alla realizzazione di qualche sogno nel cassetto.
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