Mastodontico. Eccezionalmente suonato e composto, il terzo album solista di
Steven Wilson vive negli anni fra il '70 ed il '75, abbandonando le pur felici intuizioni trip hop dei precedenti Insurgentes e Grace For Drowning, per
tuffarsi nel più classico prog rock, filtrato dalla mente del maestro. Registrato in presa diretta, tranne le voci, agli EastWest Studios di Los Angeles, sotto la supervisione di nientemeno che Alan Parsons, è stato reso possibile dalla superlativa line up che lo ha accompagnato nel suo primo tour solista, non a caso scelta per permettergli un livello di virtuosismo che i già virtuosi Porcupine Tree non potevano raggiungere, per i limiti dei musicisti coinvolti (e stiamo parlando già di gente ad alti livelli!). Finito il tour Wilson si è trovato con i pezzi praticamente già pronti (Luminol era stata già suonata dal vivo) e in pochi giorni di sessioni in studio l'album era nato. Se dovessi descrivere dettagliatamente ogni brano, questa recensione diventerebbe un articolo,
quindi mi limiterò a darvi delle indicazioni sui tratti chiave. L'influenza di King Crimson e Mahavishnu Orchestra è sempre presente, quindi anche la totale libertà da ogni schema creativo predefinito, nel pieno spirito della pura ispirazione artistica degli anni '70, e questo avvicina The Raven That Refused To Sing (And Other Stories) anche al jazz, basta ascoltare
The Holy Drinker con il sax di Theo Travis a tutto campo, unito al piano elettrico e all'organo di Adam Holzman.
Luminol ha un intro di basso e cori (tutto il pezzo mostra il gusto per la coralità di Wilson) tipicamente Yes, per proseguire a metà fra jazz, Genesis e Caravan: mellotron, flauto, sax, partiture di pianoforte impossibilmente complesse e la parte ritmica (che mi ha ricordato i Rush) in continuo crescendo di virtuosismo e climax.
Drive Home e
The Pin Drop sono i brani più Porcupine Tree. Il primo è arioso e luminoso, con un occhio alla melodia e, questa volta, alla semplicità ed immediatezza della struttura, insieme a quegli accenti space tanto Genesis. Il secondo è meditativo, con l'arpeggio di chitarra ed i cori in primo piano, volutamente accennato ed intimista, come una pausa di riflessione. Gli fanno da contraltare i dodici minuti di
The Watchmaker, altra magniloquente esplosione di virtuosismo, con una eterea parte iniziale che richiama moltissimo i Genesis di Nursery Cryme e si trasforma in un tributo ai Pink Floyd. A chiudere la title track, nello stile dei pezzi più ariosi e spaziali sia dei Porcupine Tree che del Wilson solista: si parte con il pianoforte, per finire in un crescendo di archi e voce alla Yes. La tematica dell'album sono le ghost stories della tradizione vittoriana inglese ed un omaggio (il corvo) ad Edgar Allan Poe; ad ascoltarlo non si direbbe, la musica dell'artista inglese è sempre luminosa, sognante e con vasti orizzonti davanti agli occhi. Largo l'impiego non convenzionale di synth e di assoli di basso e flauto alla Jetro Tull. Epocale è un aggettivo ormai non più utilizzabile per un lavoro di prog rock, ma The Raven That Refused To Sing è un capolavoro.
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