Nel foglio promozionale che accompagna il disco dei piacentini
Tombstone Highway, scritto in inglese dalla label Agonia Rec, si dice che la band “emerge dalle fangose sponde del Po, traendo ispirazione dal folklore rurale della propria terra natìa..”. E la mia mente è subito corsa alle paludi emiliane, regno di zanzare ed alligatori, dove misteriosi e sinistri produttori di insaccati e formaggi si radunano nottetempo per evocare il Baron Samedi con antichi riti Voodoo. Una sorta di Louisiana al gusto di piadina. Mitico!
Ma come si può non trovare simpatici questi ragazzi, che suonano una sorta di heavy rock con inflessioni southern, alla maniera di Black Label Society e Down?
Questo è un album che irradia quel feeling particolare, tutto a stelle e striscie, che di solito elogiamo nei lavori di piccole bands del Texas, della Georgia, dell’Arizona e così via. L’attitudine è truce, molto più dura e metallica rispetto a Lynyrd S. e compagnia, come ha insegnato la scuola stilistica più recente. Chitarre che macinano riff pastosi alla Zakk Wylde, ritmiche slabbrate e voce rissosa, ma anche qualche cameo di banjo (!!) (“Old blood”) o la rugginosa incursione in territorio stoner/blues (“Graveyard blues”). Certo, alcuni pezzi sono didascalici e risentono fortemente delle influenze di cui si è detto, ma la qualità è buona ed esistono ovvi margini di miglioramento.
Ora vado a camminare sulle rive limacciose del Po torinese, con in spalla il mio fedele Winchester per fare un po’di caccia tra canneti e miasmi malarici. Naturalmente ascoltando l’album dei Tombstone Highway.
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