Praticamente cloni dei Rammstein. Il terzo album degli
Stahlmann li conferma un tipico prodotto da e per il mercato tedesco, del tutto stereotipato e privo di significato. I chitarroni coatti dei succitati Rammstein e la stessa voce da "atteggione", gli immancabili synth da dancefloor ed una scontata contaminazione con il gothic nel lavoro tastieristico. Aggiungete una produzione perfetta et voilà: pronti per essere passati nei club gotici, dove tutti li scambieranno per la band di Till Lindemann. Immancabile la confezione "ambiguamente di destra", con un teschio con un monocolo, che richiama indirettamente i colonnelli del regime dell'Adolfino che fu, strizzata d'occhio a tendenze estetico/culturali destrorse più o meno sincere, ma alquanto di moda in parte dell'odierna scena gotica. Ovviamente il cantato è in tedesco. Le chitarre di
Der Schmied chiamano in causa il primo album dei Marilyn Manson. Spesso nei cori sembra di sentire i The 69 Eyes di Wasting the Dawn e del nuovo X. Altro da dire? Ah, sì: songwriting piatto e ripetitivo.
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