Difficile immaginare, soprattutto in un mercato discografico in piena
stagflazione (per non usare il termine “crisi”, di questi tempi tristemente di grande d’attualità) come il nostro, quale possa essere l’
audience di riferimento di un disco strumentale, magari “per chitarra”.
Maniaci della tecnica, onanisti della velocità esecutiva, o forse
rockofili che sanno apprezzare gli sforzi di musicisti indirizzati alla fantomatica “forma canzone” (sì, proprio
lei … non ve lo aspettavate
eh …) anche in assenza di una voce “guida”?
Se vi riconoscete nell’ultima categoria descritta (e la mia speranza è che siate in tanti …), il mio suggerimento spassionato è quello di non trascurare il brillante lavoro svolto da
Marco D'Andrea nel suo
album “Everything I have to say”.
Chitarrista noto per la militanza negli ottimi Planethard, Marco affronta la problematica materia con grandissima disinvoltura, intridendo di passionalità e
feeling (ci voleva anche
lui …) stesure costantemente indirizzate alla suggestione emotiva.
I fondamenti di scuola tipicamente
hard-rock (inteso nella sua accezione più ampia, compresi quindi anche bagliori della trascrizione “moderna” del genere, già apprezzati negli ultimi riscontri forniti dai Planethard …), verosimile eredità della band “madre”, s’intersecano con vari linguaggi sonori (
blues,
fusion,
prog, …), e il risultato è quello di un
guitar-hero che si rivela principalmente un ottimo compositore, con un raggio d’azione piuttosto ampio per cultura e conoscenza.
Certo, quasi fatalmente talvolta i pezzi perdono un briciolo di fruibilità e l’attenzione dell’ascoltatore “generalista” ne esce leggermente ridimensionata, ma sintesi, fluidità e concretezza appaiono comunque le basi su cui D’Andrea edifica la sua performance, ispirata da grandi protagonisti del settore quali Satriani, Morse, Friedman e Johnson, ma senza trascurare Angus Young (il
riff di “Esperanza”, per esempio, è piuttosto AC/DC-
iano) e con l’aggiunta di appena un pizzico di Marc Tremonti (per il quale il nostro ha “aperto” in occasione dei suoi concerti italiani …), probabilmente, riuscendo altresì a conservare ben salda un’identità interpretativa propria.
Ascoltare la quarantina di minuti del Cd sarà quindi un bel modo per trascorrere del tempo di “qualità” e per lasciarsi coinvolgere dalle peculiarità di una miscela sonora sufficientemente sfaccettata e libera da pastoie ostentative, alimentata dalla sensibilità e dal buongusto, dall’intensità e dalla melodia.
Ah, infine, a scanso di equivoci, volevo anche sottolineare che in “Everything I have to say” non manca nemmeno l’abilità specialistica (egregia, tra l’altro, anche la prova di Fernando De Luca al basso, Stefano Arrigoni alla batteria ed Alessandro Giulini alle tastiere) … essa è però solo “uno” degli aspetti importanti del quadro complessivo, proprio come accade in tutte le situazioni in cui si va oltre l’effimera nozione di
virtuoso e si sconfina nel concetto ben più nobile di
raffinato artista musicale.
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