Con i gruppi come i
Crying Steel, il rischio maggiore, per i
metalofili della mia generazione, è quello di scadere eccessivamente nel “come eravamo”, ricordando i tempi pionieristici di “Heavy metal eruption”e del primo mini Lp su Metal Eye o ancora l’emozione provata durante l’ascolto di “On the prowl”, dimostrazione tangibile di come la “risposta italiana ai Judas Priest” aveva saputo onorare tale impegnativo e gratificante appellativo senza abusarne, inserendo nella propria inossidabile lega sonora fascinose cromature melodiche.
Il come-back del 2007, in formazione originale, ottimo peraltro, manifestava in maniera evidente tale pericolo, ma anche se oggi i bolognesi sono leggermente diversi negli effettivi (Luca Bonzagni e Alberto Simonini non sono più della partita, e questo, indipendentemente dall’imminente valutazione artistica dei sostituti, è un rammarico per tutti i
die-hard fans della
band …), l’arma a doppio taglio dell’effetto “nostalgia” è sempre in agguato.
Essere troppo “critici” a causa di un passato così valoroso oppure, viceversa, dimostrarsi oltremodo benevoli con chi ha saputo “accompagnarti” così opportunamente nella tua “crescita metallica”, sono, dunque, gli atteggiamenti che ho cercato di evitare primariamente nell’analisi di questo “Time stands steel” e alla luce di questa raziocinante consapevolezza, posso solo dire … che botta!
Rodati da un’efficace attività
live, i “nuovi” Crying Steel rispettano in pieno il loro ruolo “storico” di protagonisti dell’
italian way of heavy metal, ostentando una coesione ottimale anche con gli innesti di Magagni e Palmonari, chiamati entrambi ad un’incombenza tutt’altro che agevole.
Se il primo forniva garanzie grazie all’importante
curriculum, è soprattutto la prestazione del secondo a sorprendermi: i polmoni e i registri timbrici del nostro ossequiano con personalità i maestri dell’acuto produttivo Halford e Tate, adattandosi in maniera ugualmente efficiente pure alle sonorità del
metal melodico d’estrazione californiana, proprio alla stregua di Bonzagni nel glorioso “On the prowl”.
In questo modo, l’albo rappresenta un’autentica delizia per gli estimatori di Judas Priest, (primi) Queensryche, Saxon, Accept e Dokken, rievocando altresì l’indimenticata arte dei favolosi Malice, un raro caso di riuscito sodalizio tra carisma e devozione.
In un panorama musicale di riferimento molto “revivalistico” e spesso altrettanto manieristico, anche i
cliché di “Defender” e l’afflato autoindulgente (e sfacciatamente Priest-
iano) di "Crying steel” (con un apprezzatissimo cameo chitarristico del mitico Simonini, in un brano che vuole essere un inno all'integerrima e irriducibile “storia” del metallo italico …) esibiscono classe e distinzione, assieme ad un “tiro” non indifferente, mentre in “Shutdown” Stefano si “traveste” da James Neal, assecondato dai suoi compagni per ratificare il legittimo possesso della celebre “licenza d’uccidere” losangelina, che in “Lookin' @”, “Rockin' train”, “Starline” e nell’adescante “Beverly kills” si trasforma in un ugualmente temibile lasciapassare per l’olimpo anglo-teutonico del settore, tra riff crepitanti, ritmi possenti e un cantato
anthemico e propulsivo.
“Heavens of rock” (dedicata alla memoria di Steve Lee …) e le terremotanti “Metal way” e “Black eve” solcano frementi e graffianti territori
class-metal, e le ultime note di merito le spendiamo per la suggestiva costruzione armonica di “Riding” e per l’impatto di “No slip”, in cui si percepisce più nettamente l’influsso del miglior H.M. classico di scuola statunitense.
Ora è ufficiale … i Crying Steel sono tornati per
davvero e hanno ancora molto da “dire” e da “dare” alla comunità metallica internazionale (non lasciando nulla d’intentato e riservando una particolare cura anche alla veste grafica del disco, deficitaria nel precedente "The steel is back!"), sia che si tratti di “giovani virgulti” o di “maturi sempreverdi” … non rimane che ringraziare e “abusare” del loro scintillante lavoro.