Un non-morto con la faccia da teschio intento a cibarsi di un succulento (?) braccio umano appena amputato alla vittima, il cui resto del corpo giace in ordinati pezzi su un tavolo, viscere comprese.
Vi riterreste in grado di indovinare il genere d’appartenenza della band che ha scelto tale sublime dipinto come artwork di copertina senza aver ascoltato una singola nota dell’album?
Bravi, azzeccato! Purtroppo non avete vinto nulla, ma siate comunque i benvenuti nella Terra della Carne!
In effetti i Coffins, feroce combo di nipponici natali, ci allietano sin dal lontano 1996 con un marcescente (nel senso buono!) old school death metal senza fronzoli o tecnicismi di sorta. Alla semplice quanto efficace ricetta va senz’altro aggiunta una buona dose di catacombale doom; si segnala, da ultimo, qualche fugace flirt con lo sludge.
È bene specificarlo sin d’ora: le anime musicali ora citate convivono senza forzatura alcuna, spesso e volentieri anche all’interno del medesimo brano. Proprio l’ottima opener Here Comes Perdition ci rassicura in tal senso: dopo un incipit tenebrosamente rallentato, il brano decolla con un riff semplice e tutt’altro che originale, ma non per questo meno letale.
Il resto del platter segue la scia dell’apripista, conducendoci lungo 47 minuti di deliziosa efferatezza sonora.
Degna di lode la produzione, in grado di donare ai nostri macellai orientali i suoni più contundenti su cui abbiano mai potuto contare. Il maggior beneficiato è indubbiamente Uchino, il cui guitar work appare sublimato da un sound finalmente all'altezza. Azzecato a dir poco anche il growling, profondo e cavernoso al punto giusto.
Che altro aggiungere? Se la putrida (sempre in senso buono) formula sopra descritta incontra i vostri gusti musicali, non vedo come possiate rimanere delusi da The Fleshland: che si abbia a che fare con le paludose digressioni doom di canzoni come The Colossal Hole e The Unhallowed Tide, piuttosto che con urticanti bordate death quali No Saviour (ascoltate e imparate, Six Feet Under!) e Dishuman, i Coffins riescono a convincerci senz'affanno della bontà della loro ultima fatica.
Pertanto, consiglio umilmente ma con convinzione l’ascolto di questo pregevole dischetto; già che ci siete, andatevi a recuperare pure Buried Death, altro ottimo lavoro delle Bare risalente al 2008.
Slowly we rot…
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