Lo ammetto: la (almeno per me) ignota band newyorkese mi ha fatto dannare parecchio nell’impresa di rinvenire informazioni sul suo conto. Nessun sito web ufficiale, sparuti links perlopiù riguardanti apparizioni live in qualche localino della Grande Mela… e una scoperta di colore sul criptico nome Teloch Vovin. Pare si tratti del Drago della Morte, e quindi nientemeno che un alter ego del nostro simpatico Signore Satana, in idioma enochiano. I più informati di voi ben sapranno che detto linguaggio venne diffuso dagli occultisti inglesi Sir Edward Kelley e John Dee nel sedicesimo secolo; i due gentiluomini in questione, infatti, proclamavano di aver appreso la lingua degli Dei da misteriosi angeli, a loro apparsi in una sfera di cristallo magica.
L’incipit, al contrario di quanto potrebbe sembrare, non è del tutto inutile: quantomeno, ci permette di inquadrare l’humus filosofico in cui i nostri si muovono, e l’immaginario che lo loro musica vorrebbe evocare. Un immaginario fatto di simbologie rituali, pentacoli e arcane amenità assortite; basti soffermarsi, sotto tale profilo, a quanto riferito dalla loro label, la Earsplit, la quale ci informa che l’esordio dei Teloch Vovin è uscito in edizione limitata di 333 copie, tutte rigorosamente battezzate con sangue sacrificale. Mah…
Se l’apparato di cui sopra possa contribuire o meno a incrementare il livello d’interesse per il combo a stelle e strisce lo lascio giudicare a voi; con riguardo al profilo squisitamente musicale posso affermare che di strada da percorrere, per divenire una realtà di rilievo nel panorama del metal estremo, ne resta ancora molta.
Nel debut album intitolato I ci viene propinato un rozzo black metal corrotto da litanie dal sapore proto doom; una sorta di early Bathory meets Pentagram, per intenderci. Purtroppo, i livelli delle due bands citate non vengono affatto raggiunti.
La mia impressione, se devo esser sincero, è che i Teloch Vovin profondano più energie nella spasmodica ricerca di apparire cult, underground e occulti che non nella creazione di buone canzoni. Ed è proprio il songwriting, in effetti, a latitare. Passi la produzione terribilmente grezza e low-fi, che con ogni probabilità costituiva un preciso obiettivo del gruppo; passi l’esecuzione strumentale grossolana, anch’essa lacuna consentita e, per certi versi, persino auspicabile nell’ambito del genere proposto; ma non può venir ammessa la sostanziale mancanza di spunti compositivi davvero convincenti. Nell’arco dei 33 minuti (un caso? Non credo proprio…) di durata del platter, possiamo baloccarci con alcuni riffs rozzi quanto godibili, con un efficace screaming marcescente e con talune atmosfere riuscite nella loro morbosa semplicità.
Per riuscire a compiacere il Drago della Morte, tuttavia, temo non sia sufficiente. Di certo, non lo è per il sottoscritto.
Non è ancora stata scritta un'opinione per quest'album! Vuoi essere il primo?
Non è ancora stato scritto nessun commento per quest'album! Vuoi essere il primo?