Per gente che con questa band ci è cresciuta, l’uscita di un nuovo disco rappresenta sempre qualcosa di affascinante. Perché potranno raccontarvi tante storie, potrete sentire raffiche di insulti, risatine e cattiverie, ma i Dream Theater, se li avete amati, nessuno potrà mai portarveli via.
Detto questo, giusto per chiarire da che parte mi colloco nella
Great Debate che da sempre divide il mondo tra
dreamtheateriani e detrattori, passiamo pure ad analizzare il disco, partendo da una certezza, per come la vedo io, assoluta: si tratta di un album nettamente migliore del precedente.
La motivazione è una sola e risiede nel fatto che, questa volta, quasi tutti gli orpelli inutili che appesantivano a dismisura le pur buone canzoni di
A Dramatic Turn Of Events sono stati eliminati. Dico quasi, perché effettivamente anche in questo disco compaiono secondi e secondi di roba evitabile, ma nel complesso i pezzi non risultano eccessivamente gravati da elucubrazioni poco gradevoli.
Qui è più che evidente come i mesi di convivenza siano serviti ai ragazzi per trovare il giusto equilibrio e a Mangini per sentirsi parte organica del progetto. Uniteci qualche settimana in più di studio rispetto a quello che accadeva nel recente passato ed ecco uscire un disco che, dall’inizio alla fine, tiene alta l’attenzione e riserva spunti decisamente interessanti.
Prima di svelarvi tutto quanto, però, credo che un bel track-by-track sia doveroso.
FALSE AWAKENING SUITE – 2:42 – VOTO 6,5Una breve intro strumentale piacevole e diretta, che dal secondo/terzo ascolto viene sistematicamente skippata ma che in realtà rappresenta un buon riassunto di alcuni elementi caratterizzanti di questo disco. Insomma…sentitevela, apprezzatela, ma poi dimenticatela pure.
THE ENEMY INSIDE – 6:17 – VOTO 6Il primo singolo, ormai credo più che conosciuto. Intro legnata, strofa interessante, ritornello eccessivamente commerciale, bridge che puzza di già sentito, così come la parte strumentale, dove Rudess propone un suono ridicolo e Petrucci sforna un solo francamente non all’altezza della propria fama. Se avete tratto le conclusioni dopo aver sentito questo brano, sappiate che sono completamente sbagliate. Per fortuna, perché sicuramente si tratta della peggiore di tutto l’album.
THE LOOKING GLASS – 4:53 – VOTO 8,5Bella e solare, questa canzone sposta completamente pretese, aspettative e tutto quanto verso l’alto. Davvero notevole, ricorda senza dubbio gli esordi della band (Awake in particolare) in quanto a struttura e melodie, anche grazie ad un assolo di chitarra che pur senza far gridare al miracolo strappa un convinto applauso. Centro pieno, una delle migliori song dei Dream Theater degli ultimi anni. Si prosegue veramente carichi di gioia.
ENIGMA MACHINE – 6:02 – VOTO 7,5Strumentale di grande impatto, in cui tutti fanno i fenomeni e, nonostante un suono di tastiera ancora non proprio al top, la parte centrale regala belle sensazioni. Petrucci diviso tra acrobazie e melodia, Myung in evidenza e Mangini che propina mazzate finalmente completamente padrone della scena. Certo, le vette di sgroppate strumentali ormai fin troppo lontane nel tempo rimangono inarrivabili, ma rispetto al solito si sente quantomeno la voglia di osare un pochino di più.
THE BIGGER PICTURE – 7:41 – VOTO 7,5L’ho odiata ai primi ascolti, ma poi mi ha preso alla grande. La partenza con piano e voce è notevole, ma all’arrivo del ritornello il pezzo sembra incagliarsi in una struttura che fatica a scorrere come si deve. Nonostante strofe di buona fattura, inizialmente sembra mancare il traino melodico necessario. Però poi il brano si sviluppa bene fino al finale in cui il godimento aumenta a dismisura, mentre LaBrie si riprende il dominio su parti del pentagramma che giacevano impolverate da anni, in un crescendo di emozioni davvero da ricordare. Una volta digeriti anche i primi minuti, in effetti viene proprio voglia di risentirsela più e più volte.
BEHIND THE VEIL – 6:53 – VOTO 6 Pur non essendo un pezzo banale, probabilmente rappresenta il punto debole dell’album insieme a
The Enemy Inside. Fatica a partire, fatica a svilupparsi e, soprattutto, la melodia del ritornello non convince mai in pieno. Non che sia particolarmente brutta, ma alla lunga annoia risultando un po’ troppo cantilenante. Anche la parte centrale non offre queste grandi cose. Insomma, tutto sommato anonima ed evitabile.
SURRENDER TO REASON – 6:35 – 7 Stampino Dream Theater del nuovo millennio che sbuca dopo la buona intro acustica. L’apertura del ritornello stavolta è decisamente a fuoco, con le variazioni sulla strofa intorno al terzo minuto che rappresentano una ventata d’aria fresca in un songwriting che finalmente ritrova sprint dopo anni di relativo immobilismo. Particolare anche il solo di Petrucci e la ritmica sottostante. Davvero un bel pezzo.
ALONG FOR THE RIDE – 4:45 – 6,5 Già uscita come secondo singolo, è una ballad dolce e malinconica. I primi ascolti non mi avevano convinto per niente, mentre col passare del tempo svela un certo fascino. Devo ammettere infatti di essermi ritrovato a canticchiarla più di una volta in questi giorno. Rimane tuttavia vergognoso l’assolo di Rudess, probabilmente un tributo al progressive anni ’70 che tuttavia si rivela fuori luogo, fuori senso, fuori tutto, oltre ad abbassare almeno di mezzo punto il voto alla canzone.
ILLUMINATION THEORY – 22:18 – VOTO 7Al contrario di altre canzoni, nel caso della lunga suite finale, le ottime impressioni iniziali hanno lasciato spazio a più di qualche dubbio. Soprattutto, le perplessità riguardano la prima parte del brano, dall’intro fino al sesto minuto, dove invece la partenza di un’ampia sezione quasi neoclassica regala respiro e spessore a tutto il contesto. Peccato che subito dopo arrivi la parte di “atmosfera”, davvero troppo lunga e inutile, che già tanto male aveva fatto in grandi canzoni come
The Count Of Tuscany e qui ritorna a tritare i cosiddetti senza alcun ritegno, seguita da un paio di minuti di crescendo di archi, effettivamente piacevole ma forse non proprio azzeccato. E allora, direte voi, come fai a dare 7 a una canzone che finora hai distrutto? Ecco, tutto quello che c’è di buono accade a partire dal minuto 11. Riff di basso e batteria che lascia spazio a un cantato coraggioso, moderno, efficace, fino a giungere al momento dei soli, che pur rimanendo sullo stile impostato dalla premiata ditta Rudess & Petrucci nel lontano 1999, stavolta regala brividi sia nei momenti più melodici che in quelli più veloci. Subito dopo si riparte con la melodia portante in un finale su cui LaBrie torna grande protagonista. I finali dei Dream Theater, d’altra parte, a livello di linee vocali, sono sempre stato quanto di più carico di pathos si possa trovare in giro e questa suite non fa certo eccezione. Già me lo immagino questo finale dal vivo (con LaBrie in forma, altrimenti rappresenta un potenziale suicidio pubblico): solo brividi, anche grazie al sapiente solo conclusivo di chitarra.
Dal minuto 19 al minuto 22 cosa succede? Niente di importante, direi: lunghi secondi di silenzio interrotti da un pianoforte che accompagna il disco alla conclusione senza nulla aggiungere.
Passando alle singole prestazioni, vi dirò, in breve, che Petrucci mi pare ben più ispirato rispetto al recente passato, Myung si sente ovunque e offre una prestazione da applausi, Mangini è grande ma non è certo una scoperta, LaBrie finalmente torna ad osare e Rudess ha sinceramente stancato, tra l’altro perdendo anche mordente quando lascia da parte suoni ridicoli e arzigogoli esilaranti.
Che dirvi, dunque? Già me li vedo i commenti cattivi a prescindere, quelli che mai sono mancati ad ogni disco dei Dream Theater. Sinceramente, questa volta la maggior parte di essi lascerà il tempo che trova, perché tutto si può dire di questo disco tranne che sia “brutto” o freddo o noioso o tutto quello che si è riusciti, negli anni, a buttare addosso a questa band.
Io non gioisco più di tanto, perché i “miei” Dream Theater sono quelli di qualche anno fa, soprattutto grazie a ricordi ed esperienze personali che poco c’entrano con l’effettivo spessore di dischi e quant’altro. Ma questo disco segna innegabilmente una crescita rispetto al precedente, ci consegna una band più coesa e qualche canzone da ascoltare volentieri, almeno per qualche mese.
Fate la somma dei voti che trovate sopra, poi dividetela per nove canzoni e avrete un bel 6,9. Dunque sette in pagella per questo nuovo capitolo della saga Dream Theater, l’ultimo con Mangini prima del ritorno di Portnoy.
(Io l’ho detto, voi l’avete pensato. Succederà, magari non subito come previsto, ma succederà).