In tutta onestà non mi sono mai curato troppo dei giudizi altrui, né ritengo sia giusto soffermarsi troppo su essi in campo musicale, laddove la sensibilità di ciascun fruitore interviene a plasmare il giudizio su un artista o un album. Ogni tanto tuttavia mi capita, e lo ammetto senza imbarazzi, di cercar suffragio delle impressioni maturate, sbirciando pareri espressi da “colleghi”.
Ebbene, devo confessare che stavolta non ho trovato alcuna conferma delle mie opinioni: nemmeno una, fra le recensioni che ho avuto modo di visionare, sembra concordare col sottoscritto. Poco male, dopotutto: ho sempre osteggiato col massimo sdegno intellettuale la teoria secondo cui la verità risiede nella maggioranza. Per cui, giungendo infine al sodo, rimango della mia opinione: nonostante gli entusiasmi riscontrati qua e là per il web, questo
Ajastaika, album d’esordio dei finlandesi
Vorna, resta un lavoro sufficiente e nulla più.
Il sestetto, esaurite le premesse, tenta di guadagnare spazio vitale nel sovraffollato panorama folk black metal (e con quella copertina non potevano esservi dubbi in merito), proponendo una formula tanto collaudata quanto trita: vocals estreme (sia growling che screaming, piuttosto anonime entrambe) alternate a sparute quanto perfettibili parti in clean, trame chitarristiche di matrice black supportate da keyboards e strumenti come flauti, violini e via discorrendo. Non proprio la fiera dell’innovazione, ne convengo, ma stiamo discutendo di un genere in cui risultare freschi non è semplice (seppur non impossibile: si pensi ai
Troldhaugen, che d’altra parte nessuno conosce).
Il problema, in ogni caso, non va rintracciato nella scarsa originalità, né si può puntare il dito contro il songwriting (le canzoni, anche se decisamente troppo simili tra loro, risultano ben costruite e composte, in particolar modo
Kaivatun Uni e
Ikuiseen Iltaan), contro la perizia strumentale (stiamo parlando di musicisti ben più che dignitosi) o contro la produzione (forse un pelo asciutta e poco avvolgente, ma comunque nitida e bilanciata: per una volta al basso viene garantito il risalto che merita).
Dove si cela dunque il peccato originale? Semplice: trovo che
Ajastaika sia un lavoro molto scolastico, manierato, che pur non facendo nulla di sbagliato evidenzia gravi carenze di carattere e personalità. Certo, un ascolto occasionale porterà alla luce le atmosfere solenni, gli arrangiamenti magniloquenti, le accattivanti trame ugro-finniche. Nondimeno, grattando dalla superficie orpelli e svolazzi e soffermandosi sullo scheletro dei brani, ci si potrà accorgere dell’assenza di melodie realmente memorabili o di spunti davvero vincenti. Come scritto sopra: sufficienza piena e meritata, ma non oltre.
Mi permetto un ulteriore aggancio al cappello introduttivo: alcuni articoli dai toni particolarmente trionfalistici sono arrivati ad avanzare paragoni coi sublimi
Moonsorrow… Ebbene, massimo rispetto per tutti (recensori e musicisti), ma a mio avviso siamo davvero su due galassie differenti.
I completisti del genere ci facciano un pensierino, gli altri farebbero forse meglio a volgere lo sguardo altrove.