Attendevo questo nuovo lavoro degli
Houston con una certa impazienza, ansioso di poter verificare se all’impegnativo
test della seconda incisione sulla lunga distanza gli svedesi sarebbero stati in grado di confermare e magari andare addirittura oltre il ruolo di uno dei
most promising acts of the new generation assegnato loro dal sottoscritto e da un numero abbastanza consistente di
fans e critici musicali sparsi in tutto il globo terracqueo.
In particolare, mi interessava appurare se le (comprensibili) prevedibilità compositive dell’esordio erano state superate grazie ad una maggiore “maturità” e se con l’eventuale acquisizione di tale proprietà era arrivato anche quello “scatto” decisivo in grado di trasformare una brillante
promessa in splendida
realtà del
rock melodico internazionale.
Ebbene il
verdetto, se così vogliamo chiamarlo, è controverso, l’
album è sicuramente ancora una volta un fulgido esempio di come si possa raccogliere l’eredità
adulta più pura e aurea degli
eighties, addizionando alla “cultura” anche la necessaria “vocazione”, eppure la sensazione è che qualcosa manchi ancora per il compimento di una personalità artistica evidentemente non ancora pienamente definita.
Lo
standard qualitativo dei musicisti è notevole (con la voce di Hank Erix e le rigogliose tastiere di Ricky Delin sugli scudi, adeguatamente supportate da un cospicuo schieramento di ospiti, tra cui il noto Tommy Denander , sempre tempestivo e prezioso nei suoi interventi chitarristici …), le melodie ariose e affascinanti e la maestria negli arrangiamenti palese, mentre il profilo compositivo, da giudicare complessivamente piuttosto vivido ed eterogeneo, denuncia qualche sporadico calo di tensione, esiguo, tutto sommato, e tuttavia sufficiente a zavorrare l’ascesa degli scandinavi verso l’ambito
Olimpo dell’
AOR.
Qualcuno potrà parlare di “pretese eccessive”, indirizzate ad una
band comunque
giovane che peraltro non incappa mai in casi di effettiva
débâcle, ma in un universo musicale convulso e livellato come il nostro, in cui il
revival (più o meno ispirato …) sembra la soluzione più praticata, la differenza “vera” la fanno irrimediabilmente dei “dettagli” come le fluttuazioni nella tensione espressiva.
La valutazione, al di là delle fisime “giornalistiche”, rimane molto alta, e sono sicuro che durante l’ascolto di gioiellini del calibro di “Glory”, “I’m coming home”, “Back to the summer of love”, “24 Hours”, “On the radio” e “Losing” i vostri sensi saranno ampiamente gratificati e non si
preoccuperanno poi molto se altrove non è possibile riscontrare “esattamente” la medesima forma di esaltazione emozionale.
Con “II” gli Houston consolidano le impressioni ampiamente positive dell’esordio e verosimilmente rimandano il salto di qualità “definitivo” alla prossima prova … l’attesa è già ricominciata …
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