Sfornano dischi con una velocità e costanza notevole i
Pathology, sette album in otto anni senza mai un cedimento, anzi, mantenendosi costantemente su livelli alti.
O quasi.
Per chi non li conoscesse stiamo parlando di un combo di San Diego autore di un brutal death metal dal tasso tecnico notevole, suonato con le palle ma senza esibizionismo.
Il precedente
The Time of Great Putification, ben accolto ovunque, era entrato nella mia top ten 2012 e, data la quantità di roba death che ascolto nel mio piccolo, non fa che confermare la bontà della proposta di questi estremisti sonori.
Ci sono però alcune cose da segnalare prima di procedere con la disamina del disco, a cominciare dal fatto che i
Pathology hanno cambiato etichetta (ora pubblicano per
Sevared Records) e cambiato formazione. Sono infatti tornati il cantante
Matti Way e il chitarrista
Tim Tiszczenko che erano usciti nel 2010, proprio prima che la band buttasse fuori i due dischi micidiali che ne hanno accresciuto popolarità. Le domande che è lecito porsi sono se lo stile sia cambiato e se il livello sia stato mantenuto. Le risposte sono si e ni.
Introdotti da un'altra bella copertina di
Par Olofsson (una vera leggenda in campo death metal) che continua il tema della manipolazione delle masse, quello che ci accoglie è niente più, niente meno che una mezz'ora di brutalità controllata. Controllata perché ogni elemento è al posto giusto e perfettamente calcolato, suonato con una precisione chirurgica ma, questa volta, con poca ispirazione. E qui cominciamo a vedere le differenze col predecessore.
The Time of Great Purification era pieno di riff che si alternavano a gran velocità tra parti tecniche ed altre maggiormente claustrofobiche, cambi di tempo, assoli taglienti e un cantato marcio tra il growl e il pig squeal, ma quello che colpiva maggiormente era la varietà, anche all'interno di una singola canzone che, lo ricordo, per questa band di rado supera i tre minuti.
Ora il cantato è un growl sì profondo, ma anche banale e monotono, che va a spargere morte sulle canzoni che si sono asciugate di molti elementi. Gli assoli di chitarra sono spariti, i riff sono ripetuti più a lungo e meno vari e la batteria è molto meno veloce e fantasiosa. Ne risultano canzoni leggermente più piatte, a volte meno ispirate, dove non si riesce a percepire il valore reale dei musicisti. Una scelta stilistica ben precisa sembra (o aridità creativa?), che modifica in parte il suono dei
Pathology rendendoli autori in questo
Lords of Rephaim di alcune canzoni valide e svita-collo come
Autumn Cryptique, Empire, Among Skinwalkers o la conclusiva
Code Injection, mentre altre sono proprio sempliciotte (sempre in relazione con quanto proposto in passato).
Non nascondo una parziale delusione in quanto mi aspettavo una conferma o un evoluzione di quanto già fatto, mi trovo invece a dover valutare un disco di brutal death meno personale, che va quindi ad avvicinarsi pericolosamente alla soglia del "bravi ma..." che contempla una serie infinita di band che popolano questo (sotto)genere, fatto spesso di musicisti preparatissimi sotto l'aspetto tecnico ma meno su quello compositivo.
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