Riponevo molte speranze in questo
Løyndom (“nascosto” o “segreto” in norvegese), primo full length degli
Slegest. Parliamo di una one man band capitanata (per forza, è da solo…) da
Ese, che i più attenti di voi ricorderanno in veste di chitarrista sui primi quattro lavori dei
Vreid.
L’artwork di copertina mi aveva intrigato, la descrizione del sound anche (
Black Sabbath with harsh vocals), e per di più adoro il gruppo nato dalle ceneri dei meravigliosi
Windir. Tuttavia, “
anche la speme, ultima dea, fugge i sepolcri…” scriveva il buon
Ugo Foscolo: ebbene, avrebbe potuto aggiungere “
… e fugge anche l’esordio degli Slegest”.
Eh sì, le mie pur legittime aspettative nei confronti del platter sono rimaste decisamente frustrate. Analizziamone i motivi.
Il polistrumentista non-crinito, come detto, se la suona, se la canta e se la compone, garantendosi così la più ampia libertà compositiva ed esecutiva possibile. Da ciò esce un prodotto strano, molto riff oriented, che miscela seventies doom, black e classic metal. Fin qui tutto bene, no?
La stessa opener,
Ho Som Austar Aleine, oltre a chiarire immantinente che è proprio il quartetto di
Birmingham capitanato da
Tony Iommi la principale fonte d’ispirazione del progetto, convince grazie alla pregevole linea di basso, che sprigiona un groove notevole. Decisamente più black oriented la successiva
Rooted in Knowledge (la linea di chitarra, peraltro ripetuta sino allo sfinimento, devo averla già sentita da qualche parte…), mentre si torna ancora indietro nel tempo grazie a
I Slike Stunder, brano sabbathiano sino al midollo, che plagia più che omaggiare (il break strumentale che segue l’assolo è copia/incollato da
War Pigs).
Concluso il terzo pezzo, realizzerete sgomenti che il coinvolgimento è ai minimi storici, complici anche le citate harsh vocals di
Ese le quali, di fatto, si traducono in una sorta di screaming acido, monocorde e del tutto incapace di colorare composizioni che, invece, ne avrebbero avuto un gran bisogno.
Nemmeno la quarta canzone in scaletta riesce a risollevare le sorti del platter, rivelandosi ritmicamente incalzante e prossima a sonorità NWOBHM, ma troppo ripetitiva nella struttura, tanto da evocare il demone della noia.
Quasi certamente questi s’impossesserà pian piano di voi, sussurrandovi maliziose parole e tentando di convincervi a sostituire
Løyndom con altri album ben più coinvolgenti… magari proprio
Milorg o
I Krig dei
Vreid, perché no?
La domanda è: dovreste ascoltare il simpatico diavoletto tentatore o resistergli stoicamente e seguitare nell’ascolto?
Personalmente vi consiglierei di pazientare giusto cinque minuti, il tempo di fruire della bella
The Path of No Return, mid tempo malinconico e maestoso che rappresenta il momento più alto dell’intero disco. Dopodiché, procedete pure con l’avvicendamento, visto che il terzetto di brani posto in chiusura, barcamenandosi in una stanca reiterazione degli stilemi compositivi già utilizzati, e con scarso profitto, in precedenza, saprà riservarvi ben poche soddisfazioni.
Molti sbadigli e pochi guizzi, quindi, per il povero
Ese, che ha confezionato un prodotto spurio, incompiuto e, in definitiva, piuttosto insapore.
Temo che il titolo dell’opera si rivelerà tristemente profetico: gli
Slegest, con ogni probabilità, rimarranno ben celati e nascosti nei meandri più oscuri dell’underground metal. In franchezza, forse è meglio così.