L’autolesionismo ha trovato spesso e volentieri terreno fertile nelle lugubri lande del black metal: si pensi ai tagli di
Niklas Kvarforth degli
Shining e di
Maniac (nei
Mayhem sino al 2004), alle torture auto-inflitte di
It ai tempi degli
Abruptum, o ancora alle leggende sul famigerato
Nattramn dei
Silencer (la storia delle mani mozzate, sebbene non credibile, ha pur sempre un certo fascino).
D’altra parte, si sa, i tempi cambiano. Il gruppo di cui mi accingo a trattare, conscio di ciò, deve aver ben pensato di reinterpretare la macabra pratica in una chiave più moderna e, se possibile, ancor più perniciosa. Non ferite e menomazioni fisiche, bensì strategie di marketing sinistramente prossime al suicidio commerciale: come inquadrare altrimenti la scellerata idea di chiamarsi
Inferno?
Se ho fatto bene i compiti a casa, esistono altre quattordici (quattordici!) band col medesimo moniker, senza contare gli
Abyss Inferno, i
Reign Inferno, i
Morbus Inferno, i
Proto Inferno… insomma, ci siamo capiti. Se si considera, d’altronde, che il nome d’arte del singer e leader del combo è
Adramelech, allora tutto torna: con ogni probabilità, il cane di costui si chiama Fido, e il figlio Adramelech II, o al più Andrea Rossi.
Per fortuna, la proposta musicale non è così scontata come le premesse suggerirebbero: in effetti, la band col maggior numero di split immessi sul mercato (diciassette, addirittura più delle band omonime!), sforna un nuovo full length (il sesto) dal sound originale e distinguibile. Optando per l’albionico idioma come nel precedente
Black Devotion (abbandonando così, credo per sempre, la pur affascinante lingua madre), i nostri amici dalla Repubblica Ceca decidono di enfatizzare il lato atmosferico del loro black metal.
Così, abbiamo a che fare con sei composizioni di lunga durata (esclusa l’insulsa intro strumentale, viaggiamo intorno ai nove-dieci minuti di media), dall’incedere tumultuoso e inquieto. Parte del merito va alla produzione, opera di
Tore Stjerna (già coi controversi
Watain), magari non impeccabile sotto il profilo tecnico eppur in grado di fondere gli strumenti in un unico, spietato marasma, da cui emergono malevole melodie di chitarra e uno screaming grave ed effettato. Gli stessi brani, seppur ferali e ricchi di parti in blast beat, si snodano in modo piuttosto tortuoso, dando sfoggio di riuscite parentesi dal vago sentore psichedelico e di pregevoli riff dissonanti.
Il nuovo corso è riassunto in modo mirabile dalla vera opener
The Firstborn From Murk, a mio avviso highlight del disco (nemmeno
Metastasis of Realistic Visions scherza); le successive canzoni non si discostano granché dal modus operandi, pur denunciando qualche passaggio a vuoto in talune occasioni. Giusto un paio di esempi: il riff (vagamente black’n’roll) che inaugura la successiva
The Funeral of Existence, seppur non malaccio, c’entra come i peperoni nella torta di mele; l’incipit di
The Heretical Fissure of the Most Distant End si attarda oltre il lecito; alcune fasi di
Revelation Through the Void suonano troppo convulse.
Più in generale, ho percepito distintamente l’assenza di momenti davvero memorabili: in tal modo, la fruizione di
Omniabscence Filled By His Greatness si rivela piacevole, ma non entusiasmante.
Gli
Inferno non sono gli ultimi arrivati, e si sente; oltre a ciò, ho apprezzato la nuova strada da loro intrapresa. Nondimeno, trovo che manchi ancora qualcosa per cambiar definitivamente passo. Per esser precisi, due cose: un songwriting più a fuoco, e un nome diverso da Inferno...