Tornano gli
Argus che, distanza di due anni dal precedente
Blodly Stride the Doomed e assieme all'omonimo disco d'esordio, hanno fatto ben parlare del loro classic heavy metal tinto di doom. Anche in occasione del nuovo
Beyond The Martyrs, il quintetto americano mescola nella propria musica influenze maideniane (epoca
Piece of Mind e
Powerslave) a un velo doomeggiante che permea tutti i brani. Siamo dalle parti di formazioni come
Trouble,
Veni Domine,
Cirith Ungol e
Candlemass meno cupi e ossessivi perché, sebbene gli
Argus propongano rallentamenti, parti evocative e abbiano un'impostazione dei brani un po' oscura, quello che emerge in maniera maggiore, anche rispetto ai precedenti dischi, è l'amore per soluzioni e atmosfere classicamente metal della prima metà degli anni '80. Chitarre sdoppiate nelle melodie e assoli ispirati che privilegiano il feeling rispetto alla tecnica o alla velocità, tastiere non pervenute, un basso molto presente e pulsante che spesso si trova in primo piano, ed in fine il vero marchio degli
Argus: la voce di
Butch Balich. Il cantante non ha un registro molto esteso ma è dotato di un timbro potente, caldo e coinvolgente che ricorda quello di
Mats Leven e infonde alle canzoni una forte epicità, una spinta che trascina l'ascoltatore all'interno dei brani.
Otto sono i pezzi di questo disco, come si faceva una volta, 42 minuti di musica che non sono un insieme casuale di brani selezionati tra quelli scritti, ma canzoni posizionate con un ordine preciso, bilanciate tra velocità (mai alta) e parti più riflessive, composte da riff non tecnici o complicati ma lineari e trascinanti, spesso melodici, da refrain centrali intensi e pieni, senza risultare pomposi o finti. Alcuni li hanno accusati di fare assoli scarsi e registrati male, a livello di demo, io non penso proprio. Cosa ci sarebbe da dire allora su band pluri osannate come i
Kadavar che si prodigano in un hard rock settantiano a dir poco stentoreo? Ritengo sia una precisa scelta di suono quella degli
Argus, non vogliono essere super prodotti, non vogliono essere perfetti ma, senza risultare finto-nostalgici, mantengono un po' di quella genuina magia della prima parte degli anni '80. Solo un filler da segnalare, la lenta e semplice
Trinity con un riff un po' banale e un assolo che sembra incollato sopra. Altra curiosità, al minuto 6,10 di
The Coward's Path rubano un passaggio (oppure omaggiano?) agli
Iron Maiden di
Seventh Son of a Seventh Son (la canzone).
In conclusione il disco mi è piaciuto parecchio e si ascolta più e più volte, anche perché il suono è di quello classico e senza tempo, però manca forse una scintilla, manca un qualcosa che lo faccia ricordare meglio.
Forse qualcuno dirà che potevo osare di più con la valutazione finale, però se faccio un confronto ad esempio con i
Tad Morose dei primi tre album o
Veni Domine dei primi due... non potevo proprio andare oltre. Poi, in questo 2013, in questo campo, i
Memory Garden con
Doomain hanno dato la paga a tutti.