I
Coney Hatch sono uno di quei gruppi che gli intenditori di
hard-rock melodico amano “amare”e “custodire”, una di quelle formazioni di “culto” che almeno dalle nostre parti non ha mai avuto un grosso seguito e che spesso finisce per essere citata nelle retrospettive di “genere” sotto forma di un “oscuro” tesoro da riportare alla luce.
Ebbene, rivalutare i loro tre primi album (specialmente l’esordio, prodotto da Kim Mitchell dei Max Webster - un'altra
band degna di capillare riscoperta - e il terzo “Friction”, per la cronaca il mio preferito in assoluto …) direi che è un’operazione altamente consigliabile almeno quanto non trascurare questa
reunion, svincolata, a quanto pare, da logiche “commerciali” e favorita da ragioni ben più significative e se vogliamo pure “romantiche”.
Un rientro sulle scene nato come una promessa e come un incentivo alla guarigione offerto dai suoi affezionati compagni d’avventura ad un Carl Dixon in coma dopo un tremendo incidente stradale, ha sicuramente un peso diverso di tante situazioni analoghe a cui ci ha abituato la scena musicale contemporanea, e anche se poi il risultato discografico di tale “lieto fine” non è propriamente esaltante, la testimonianza concreta del potere
taumaturgico del
rock merita una doverosa sottolineatura e finisce per emozionare chi da anni si nutre quotidianamente di questi immarcescibili suoni.
“Four” è un buon lavoro, come anticipato leggermente dispersivo e un po’ apatico in qualche episodio, ma in grado contemporaneamente di riconsegnarci i canadesi in ottime condizioni di forma, artefici del loro “storico” misto di Triumph, AC/DC e April Wine (con i quali Dixon ha collaborato, al pari dei Guess Who …), oggi declinato attraverso un pizzico di opportuna “attualizzazione”, particolarmente apprezzabile, per esempio, nella melodia straniante di "Boys club” o nella freschezza radiofonica della deliziosa ballata conclusiva “Holdin on”.
“Blown away”, “Down & dirty”, “Devil u know”, “Keep drivin'” e la
cover degli
aussies The Angels “Marseilles” sono altri momenti piuttosto intriganti dell’albo, mentre il resto del programma si attesta su un’aurea mediocrità verosimilmente poco “digeribile” soprattutto per i fedelissimi tifosi del gruppo.
L’energia, la voglia e anche l’approccio mentale e artistico, contrario a vivere esclusivamente nel “passato”, sono certamente quelli giusti, ora manca soltanto una maggiore coordinazione complessiva e un numero più ampio e consolidato di canzoni integralmente esenti da manierismi o da sfocature espressive … i Coney Hatch del
bionico (una specie di novello Steve Austin, il celebre “Uomo da sei milioni di dollari”, dopo tutte le operazioni, le protesi e la lunga terapia riabilitativa necessarie al suo ritorno alla piena operatività …) Dixon hanno tutte le qualità e la determinazione necessarie ad annientare la “nostalgia” dei
fans e ad entusiasmare le nuove generazioni di
rockofili … scommettiamo che ce la faranno, magari già con il prossimo disco?
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