La storia della musica è piena di artisti considerati seminali ma che, per un motivo o per l'altro, non hanno mai conseguito un reale successo in termini di critica e/o di pubblico.
Questo è un dato di fatto e credo che loro per primi, nel tempo, se ne siano fatti una ragione.
Alla fine il discorso è sempre quello, no? Sei al posto giusto, al momento giusto e il contesto è quello giusto, in più sei bravo, hai l'attitudine e la volontà necessarie, ma qualcosa, magari anche solo un dettaglio, non si incastra come dovrebbe.
I
Blitzkrieg rientrano a buon diritto nel novero visto che si formano a Leicester (quindi in Inghilterra, al posto giusto) nel 1980 (al momento giusto) e si collocano su coordinate stilistiche 100% NWOBHM (il contesto è quello giusto): insomma gli ingredienti ci sono tutti, la ricetta pure, però sappiamo che anche nelle migliori condizioni la buona riuscita del piatto non è mai assicurata.
Quando vengono ricordati (mica troppo spesso, a dire il vero) è principalmente per due motivi:
A Time of Changes (1985), album di debutto sulla lunga distanza e unico della loro discografia ad aver ottenuto un minimo di eco, e il riconoscimento (più volte ribadito) da parte dei Metallica dell'influenza esercitata su di loro dai nostri (ora forse è più chiaro il motivo per cui all'inizio ho parlato di "artisti considerati seminali"), al punto da omaggiarli in
Garage Inc. con la cover proprio di Blitzkrieg (ovviamente in questo caso ci riferiamo al brano).
Per questo oggi voglio puntare i riflettori su un titolo ancor meno considerato (si fa perfino fatica a trovare in rete altre recensioni): sto parlando di
The Mists of Avalon, uscito nel 1998, dunque fuori tempo massimo non solo guardando alle coordinate stilistiche (non era certo il momento più florido che si ricordi per il metal classico) ma anche, banalmente, al palese richiamo all'omonimo, celebre romanzo di
Marion Zimmer Bradley, pubblicato nel 1983 (tradotto: "Ma non potevate pensarci 15 anni prima così sfruttavate l'effetto rimorchio?").
Che poi, vai a sapere, magari all'epoca
Brian Ross (voce),
Glenn S. Howes (chitarre),
Martin Richardson (chitarre) e
Mark Hancock (basso e batteria), se ne sono bellamente fregati di tutte queste considerazioni fredde e razionali e hanno semplicemente deciso di fare quello che volevano: dare vita ad un disco onesto nel suo essere fieramente fuori moda in quanto a tematiche, genere e scelte di produzione (ah, che bello sentire suoni così scarni, diretti e sinceri!).
Non ritengo particolarmente utile citare questa o quella canzone, visto che si tratta di un'opera decisamente coerente ed omogenea per ideazione e per struttura, ma se fossi messo alle strette allora mi giocherei il jolly con la prima traccia,
The Legend, che poi è una suite di oltre 20 minuti (ulteriore dimostrazione che il coraggio proprio non mancava).
"The Mists of Avalon" è un lavoro che difficilmente verrà menzionato nel libro sacro dell'heavy metal (forse giusto in una nota a fondo pagina); ciò nonostante rappresenta, concettualmente ancor prima che musicalmente, un porto sicuro (e molto ben nascosto) per chiunque voglia sfuggire per un'ora e qualcosa alla plastica, al mordi e fuggi, al troppo che, come ogni nonna ci ha insegnato, stroppia.
E chi siamo noi per controbattere a cotanta, monolitica saggezza?
Recensione a cura di
diego
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