Non poteva che essere così. In un’epoca dominata da reunion, revival e riscoperte di “gemme” del passato, l’assenza di una band meravigliosa ed influente come i Kyuss era qualcosa che strideva in modo evidente. Così, per la gioia non solo dei fans ma di un intero movimento musicale, gli indiscussi padri del desert-rock sono tornati.
Perlomeno tre dei protagonisti di quella breve ma straordinaria epopea vissuta negli anni ‘90, visto che il “guru” Josh Homme ha fermamente rifiutato di prendere parte all’iniziativa ed anzi ha bloccato legalmente la possibilità di riproporre lo storico nome. Poco male, il progetto si chiama
Vista Chino ma la sostanza non cambia. Soprattutto non cambia lo stile, che riparte da quel “…And circus leaves town” che aveva chiuso la parabola della formazione californiana.
Ma non c’è nulla di artificioso o calcolato in questo nuovo disco, nulla che sembri datato o fuori luogo. Ed è facile comprenderlo, visto che è da una quindicina d’anni che ascoltiamo un numero sproporzionato di gruppi che suonano nello stesso modo, tanto da aver dato vita ad un vero e proprio filone come lo stoner-rock. E come potrebbero sfigurare i musicisti che tale sound hanno creato, quando a proporre cose del genere c’erano soltanto loro, i Monster Magnet, i Fu Manchu e pochissimi altri?
Album da goduria. Per qualità, fascino e importanza.
C’è tutto quello che era lecito aspettarsi. La grinta sinuosa, assolata, di “Dragona dragona”, “Sweet remain”, “Barcelonian” e della bonus track “Carnation”, brani dove ritroviamo la voce di John Garcia meno irruente del passato ma più matura, consapevole, e gli echi dei suoi ottimi Hermano ed Unida. Poi il classico andamento bluesy, pigro e sornione, in “Adara” ed i meravigliosi sviluppi psichedelici, in equilibrio tra rock duro e sensibiltà acid-grunge, che i Kyuss hanno letteralmente inventato, vedi le superbe “Planets 1&2”, “Dark and lovely” e la stordente “Acidize…the gambling moose”.
Se il cantante desertico per eccellenza appare in splendida forma e l’apporto alle pelli di Brant Bjork è solido come sempre, gli altri due elementi del quartetto meritano una considerazione. Primo: fortunatamente il bizzoso Nick Oliveri non ha aggiunto al discorso le influenze punk minimaliste espresse con i suoi Mondo Generator, che in questo contesto non avrebbero avuto senso. Secondo: il chitarrista Bruno Fevery ha scelto, a mio avviso giustamente, di non snaturare una matrice fin troppo riconoscibile, ma nello stesso tempo ha evitato di fare un semplice ricalco del modello di riferimento, riuscendo alla fine a non far rimpiangere il grande assente. E non è poco, direi.
Lavoro emozionante, fresco, convinto e convincente. Indispensabile per tutti coloro che nell’ultimo decennio hanno coltivato la passione per le sonorità che fanno da ponte tra passato e presente. Un mix che elabora ed amalgama il rock ’70, ’90 e contemporaneo, con quel tocco “sabbioso” che abbiamo imparato ad amare. Tutt’altro che nostalgia, fidatevi.