Dopo l'interlocutoria e introduttiva "Arise", l'attacco di "Fear" è molto vicino a certe robuste partenze già viste in casa dei connazionali Primal Fear, facendo ovviamente finta di dimenticarsi che anche questi ultimi hanno raccolto l'eredità dei Judas Priest, per quanto i
Black Hawk provino a dare un minimo di personalità al pezzo giocando sull'alternanza di momenti più o meno elettrici.
La successiva "The Fighter" sembra invece proprio un brano dei Saxon, quelli degli anni '80 cui rimanda anche la resa sonora dell'album e che si confermano come la principale fonte d'ispirazione per i Black Hawk. Quindi, se come si dice:
un indizio è un indizio, due indizi sono una coincidenza, ma tre indizi fanno una prova, l'aver verificato che "FashionVictim" sembra quasi voler fare il verso ai Guns N' Roses, ci porta alla conclusione che al loro quinto album non riescano proprio a scrollarsi di dosso l'etichetta di onesti gregari.
A loro giustificazione accorrono le origini del gruppo, la cui nascita risale addirittura al 1981, anche se poi i Black Hawk hanno saputo dar continuità discografica solo a far data dal 2005, quando hanno
riesordito con "Twentyfive". Mentre, ascoltando il nuovo album, va comunque riconosciuto al loro cantante, Udo Bethke, di essersi saputo calare meglio nell'economia delle composizioni.
Un progresso evidente tanto nella nuova versione dell'acceptiana "Burning Angels" (brano già presente su "Dragonride" del 2007), quanto all'ascolto delle veloci "Killer" e "Heroes" o dell'anthemica (e in debito con i primi Grave Digger) "Beast in Black".
Luci e ombre per questo "A Mighty Metal Axe", ma - complice anche un artwork probabilmente riesumato direttamente dagli anni '80 - strappa un'ampia sufficienza.
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