Dopo la spettacolare prova fornita dai
Gris col loro
À l'Âme Enflammée, l'Äme Constellée... (salvo scossoni dell’ultima ora, mio Top Album del 2013) spetta ora ai
Finnr's Cane, col loro secondo full length, il compito di tenere alta la bandiera del black metal canadese. Il debut
Wanderlust si era fatto apprezzare dagli addetti ai lavori (e, in particolare, dal nostro sommo Graz) in virtù di composizioni dotate di grande carica evocativa, che abbandonavano sovente la violenza tipica del genere in favore di un approccio più contemplativo e intimo, vicino a un certo post-rock (
Mogway su tutti).
Le medesime coordinate le ritroviamo in questo
A Portrait Painted By the Sun, il quale si presenta subito nel migliore dei modi grazie al suggestivo artwork (a firma
Benjamin König), perfetto nel rappresentare le atmosfere crepuscolari che i nostri intendono evocare.
Quindi, pieni di aspettative, ci si mette al buio, si attaccano le cuffie, si inizia ad ascoltare… accorgendosi presto che qualcosa è andato storto.
Il brano che apre le danze, in realtà, l’ho gradito: grazie a
This Old Oak vi sembrerà davvero di esservi smarriti nella buia foresta raffigurata nella copertina, grazie a trame sofferte ed epiche al tempo stesso (discreta anche la linea vocale, seppur sommersa nel mix come da tradizione della band). Con la successiva
Gallery of Sun and Stars, i nostri pigiano il pedale dell’aggressione sonora, abbandonando i dipinti paesaggistici dell’opener per abbracciare sonorità più spiccatamente black; lo stesso avviene con
A Great Storm (quinto brano in scaletta), con risultati che definirei alterni in entrambi i casi. C’è poco da fare: malignità e cattiveria non albergano qui, e le parti più tirate, alle mie orecchie, suonano forzate e per nulla amalgamate coi momenti più placidi.
D’altra parte, nemmeno quando giocano in casa i
Finnr’s Cane riescono ad alzare l’asticella della qualità. Il problema principale è che alcune soluzioni, seppur lungi dal risultare sgradevoli, sono già state adottate da molte altre band, e in modo ben più produttivo. Soffermatevi sulle parentesi acustiche, e paragonatele a quelle proposte dagli
Agalloch (che, con ogni probabilità, costituiscono un punto di riferimento importante per il giovane trio): il confronto è impietoso. Lo stesso dicasi per le melodie di chitarra più nostalgiche: vogliamo davvero avvicinarle a quelle di
Alcest o
Les Discrets, per fare i primi due nomi che mi vengono in mente?
Come se non bastasse, questo
A Portrait Painted By the Sun è afflitto da lampanti pecche di natura tecnica. La scelta di non valersi dei servigi di un bass player, optando invece per un violoncellista dal nome
The Slave (mah…), potrebbe apparire affascinante sulla carta, ma si rivela deficitaria al riscontro pratico, levando profondità e sostanza a un sound già di per sé piuttosto sottile.
Giungiamo così al problema della produzione: semplicemente da demo tape, indecisa e impastata, addirittura fastidiosa nei suoni di batteria (la cassa, in particolar modo, è inascoltabile). Ascoltate
The Wind in the Wells (peggior brano del platter a mani basse) per rendervi conto dello scempio perpetrato.
Visto che siamo in tema, sviscero l’ultimo motivo di doglianza: il drummer. Se avete letto qualche mia recensione, vi sarete resi conto che non amo soffermarmi sulla tecnica individuale dei singoli musicisti, se non in caso di exploit clamorosi, nel bene o nel male. Qui, ahimè, rientriamo appieno nella seconda categoria. So bene che il genere in questione non abbisogna di perizia strumentale sopraffina, né pretendevo una performance da piovra onnipotente alla
George Kollias (
Nile); d’altra parte, la performance dietro le pelli di
The Peasant (ri-mah…) è davvero inadeguata e grossolana. Non posso che citare di nuovo
The Wind in the Wells quale massimo esempio negativo (su
A Promise In Bare Branches non fa molto meglio): fra suoni ed esecuzione c’è poco da stare allegri, ve l’assicuro.
Non bastano un paio di brani più riusciti come le conclusive
Time is a Face in the Sky o
Tao (forse la migliore) a risollevare le sorti di un prodotto che evidenzia, a mio modesto avviso, un passo indietro rispetto al discreto album d’esordio.
Personalmente li attendo al varco con la terza prova; voi, nel frattempo, dirottate altrove la vostra attenzione. Se volete rimanere all’interno dei confini canadesi, buttatevi sui succitati
Gris: il sound delle due band è molto diverso, certo, ma lo è anche il loro livello qualitativo. Sufficienza stiracchiata.