Mannaggia
Paul, quanto fai arrabbiare…
Nemmeno il tempo di godersi un ottimo album come
Murder One, potenzialmente in grado di spianare il tortuoso percorso che conduceva fuori dall’ombra di un passato ingombrante… e
Di’Anno pensa bene di farsi imprigionare in una ridente galera losangelena, dopo aver picchiato e minacciato di morte una delle sue tante mogli e, per non farsi mancare niente, essersi fatto beccare in casa una discreta quantità di coca e un bell’Uzi (non si sa mai, con tutti i criminali che ci sono in giro…).
Tutto sommato, al turbolento cantante andò anche bene: se la cavò con “soli” quattro mesi di carcerazione, al termine dei quali ricontattò i vecchi compari, donando così i natali al secondogenito dei
Killers. Non arrivo a dire che sarebbe stato preferibile un aborto spontaneo, ma di certo il nuovo pargoletto non si rivelerà bello come il primo…
Molti critici dell’epoca (siamo nel 1994), ad onor del vero, accolsero con entusiasmo
Menace to Society, definendolo coraggioso, martellante, moderno… Aggettivazione ridondante (ve lo dice un esperto nel campo): bastava un nome per inquadrare alla perfezione il lavoro.
Pantera.
Già: se credevate che il grande
The Positive Pressure (of Injustice) degli
Extrema fosse l’album che più attingeva (per non dire scopiazzava) da capolavori del calibro di
Cowboys From Hell e
Vulgar Display of Power, dovrete ricredervi. Posate le orecchie sul riff di
Die by the Gun, e ditemi un po’ che ne pensate…
“Beh, e che c’è di male in tutto ciò? Anche
Rob Halford fece lo stesso coi
Fight!” potrebbe obiettare qualcuno.
Parallelismo non del tutto peregrino, eppure vanno svolti alcuni distinguo: in
War of Words l’imitazione era meno sfacciata, e soprattutto si trattava di un disco fantastico.
Menace to Society, al più, può esser definito passabile.
Tutto, ma proprio tutto, rimanda al sound dei
Pantera… in peggio: il drumming del fidato
Steve Hopgood sarebbe identico a quello di
Vinnie, se non gli mancassero la potenza e il groove devastanti dell’originale. Stesso discorso per
Gavin Cooper, in questa sede sorta di
Rex dei poveri. Ancor più evidente, poi, il plagio continuo di
Cliff Evans ai suoni, agli effetti, alle tecniche del compianto
Dimebag, che tuttavia rimane di un altro pianeta (vi basterà confrontare gli assoli dei due per accorgervene).
Purtroppo, nemmeno il singer di Chingford di sottrae alla triste opera di emulazione. Anzi, direi che proprio la sua performance costituisce la nota più dolente.
Di’Anno non avrà l’estensione di
Bruce Dickinson, non sarà un mostro di tecnica, ma di certo possiede una voce splendida quanto riconoscibile e una timbrica particolarissima, che sa essere graffiante e calda al tempo stesso.
Così, sentire quella voce lanciarsi in rantoli, grugniti e urlacci nel vano tentativo di scimmiottare
Phil Anselmo (altro cantante in teoria meraviglioso, se solo se ne ricordasse), è piuttosto doloroso.
Il songwriting, oltretutto, non è dei più ispirati. Dimenticatevi pezzi schiacciasassi come
Fucking Hostile e
Domination: qui dovrete accontentarvi delle loro imitazioni, alle volte buone (la già citata
Die by the Gun,
Chemical Imbalance), alle volte meno (
Think Brutal, la title track).
Proseguiamo la carrellata con un paio di
This Love dei poveri (
Three Words, carina, e
Past Due, bruttarella anzichenò), e con alcuni brani francamente orribili (parlo di
?, inascoltabile, dell’irritante
Faith Healer e della conclusiva
City of Fools, che chiarisce come nemmeno l’imitazione dei
Faith No More sia la specialità della casa).
E per fortuna che
A Song for You non è una cover del famigerato pezzo omonimo del
Vasco nazionale…
Da ultimo, non contribuiscono affatto alla buon resa del prodotto le lyrics, a dir poco deprimenti.
Ok, che
Paul non possedesse la sottigliezza lessicale di
Oscar Wilde o la profondità emotiva di
Joseph Conrad lo si sapeva, ma qui siamo veramente a livelli infimi. I testi fanno sembrare un fine trattato di sociologia l’ingenuo inno alla ribellione di
Running Free (“
spent the night in an L. A. jail”: molto profetico…).
L’impressione è che il feeling rude e violento del disco sia stato utilizzato come pretesto per confezionare lyrics involute, di disarmante banalità, degne di un adolescente represso.
Highlight negativi il refrain di
Menace to Society (rime da denuncia) e il finale di
Faith Healer, con quel “
Can I put my hands on you?” ripetuto all’infinito e cantato malissimo (neanche fosse
The Angel and the Gambler).
Non risollevano le sorti del platter le live version che la
Metal Mind Records ci propone; quantomeno, i fan sfegatati come il sottoscritto apprezzeranno.
Ci troviamo quindi di fronte a un lavoro vastamente inferiore a
Murder One; ciò che è peggio, a un lavoro senza personalità. Se come me amate tanto i
Pantera quanto quel birichino di
Paul Andrews (vero nome), dategli una chance; diversamente, sorvolate.
Sufficienza di stima.