Forse è questo il “vero”
rock progressivo. Come accadeva nei
seventies, quando i dischi appartenenti al genere erano pregni d’influssi sonori diametralmente opposti, in grado di caratterizzare profondamente i singoli pezzi per poi accorgersi che tutto “funzionava” e “girava” correttamente nonostante i contrasti.
Quando i brani potevano essere “colti” senza per questo apparire pretenziosi, e l’apertura della mente a 360° era l’arma vincente per reperire l’adeguata ispirazione, necessaria a formare una personalità propria, scansando pavidi tentativi emulativi.
Yerbadiablo, qui impegnato alla seconda prova discografica sulla lunga distanza, s’impossessa di quest’approccio, e divenuto gruppo a tutti gli effetti (il precedente “Jester in brick lane” era, in sostanza, il frutto esclusivo delle elucubrazioni creative e tecnico-interpretative di Nik), prosegue nel suo stimolante percorso di ricerca musicale, insensibile alle pastoie stilistiche e alle formule preconfezionate.
In realtà, sarebbe meglio dire che si tratta di una prosecuzione priva di autentici “passi in avanti”, dacché “It doesn't work”, pur confermando la notevole vocazione degli autori alla sperimentazione estrosa e “comprensibile”, non riesce ancora a superare del tutto una certa “timidezza” espressiva, affiancando intuizioni veramente geniali a situazioni meno incisive, ostentando un processo di maturazione artistica tuttora in fase di consolidamento.
Il disco è lodevole, sia chiaro, il melange tra
punk,
psichedelia,
noise,
prog,
blues,
fusion,
stoner e suggestioni tribali e latine (in un frullato vorticoso di Stooges, King Crimson, Molotov, Comets On Fire, Black Keys, QOTSA, Minutemen e chissà cos’altro …) è molto spesso affascinante e intrigano molto pure i fondamenti concettuali su cui si dipana l’opera (la necessità di una spinta propulsiva verso il cambiamento, prima di tutto individuale ed interiore, e poi collettivo, all’interno di un sistema iniquo e arrogante in cui non ci si riconosce … una trasformazione che deve prendere avvio dalla riscoperta del legame tra umanità e natura, indirizzata a ricreare una forma di ancestrale armonia globale …) e tuttavia la sensazione che si ricava dopo numerosi passaggi del disco è che lo “scatto” decisivo non sia ancora stato compiuto, frenato, forse, da una certa indecisione o dal timore di
osare troppo in un’epoca musicale ben poco temeraria.
Esaurite le fisime da “critico” (
vabbè …) ed entrando nei panni decisamente più “comodi” dell’ascoltatore, risulta poi impossibile non appassionarsi per l’oscuro
psych-rock “Hemp generation” (da applauso l’intervento di sax …), per le fluttuazioni plumbee di "U.S.A. (United State of Alienation)”, per le incombenti atmosfere rituali di "Imbunche” e ancora per le ambientazioni acustiche e
sixties di "Diving chamber” e per il suggestivo viaggio onirico di "Pink couds and purple eyes”, così come si possono facilmente acquisire ottime vibrazioni pure dall’ardore
garagistico di “El Viparo” e dell’irosa "!Crash”, dalle infiorescenze
popedeliche di "Black bird” e dalle scosse ispaniche di "Calavera y veneno”.
Quel poco che mancava (
cfr. la rece di “
Jester in brick lane”) all’
optimum,
ahimè, ancora non è arrivato … un
gap abbastanza esiguo eppure
tenace evidentemente, che gli Yerbadiablo possono, e a questo punto “devono”, colmare quanto prima senza titubanze.
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