Questa sì che è una sorpresa, mai mi sarei aspettato di ritrovare i
Ring of Fire dopo tutto questo tempo: infatti sono passati ben dieci anni dal loro ultimo lavoro intitolato "
Lapse of Reality", uscito per
Frontiers nel lontano 2004.
Sempre per Frontiers arriva il nuovo "
Battle of Leningrad", quarto album in studio per
Mark Boals e compagni se escludiamo il live del 2003 "
Burning Live In Tokyo 2002", e con l'ex singer di
Malmsteen ritroviamo
Vitalij Kuprij alle tastiere e
Tony MacAlpine alla chitarra, mentre carrambata al basso con l'ingresso in formazione nientepopodimenoche di
Timone Tolkki che ha cambiato strumento e si è evidentemente portato dietro un altro finnico come
Jami Huovinen alla batteria.
Ovviamente non ci discostiamo nemmeno di un millimetro da quel metal neoclassico da sempre proposto dai
Ring of Fire, e con tutto il bene l'originalità e la personalià della band è sottozero, anche senza voce questo disco sembra un outtake di un qualsiasi disco, non proprio ispiratissimo, del maestro Yngwie, se poi ci aggiungiamo Boals dietro il microfono ecco che l'ennesimo "
Trilogy Parte II" è servito, senza averne ovviamente le stesse doti e qualità.
Anzi, a dirla tutta al primo ascolto questo "Battle of Leningrad" mi ha lasciato decisamente freddino ed anche la loro carriera, nonostante decenti risultati commerciali, non è mai stata artisticamente un granchè , con dischi privi di continuità, composti solamente da isolati sprazzi e l'induscutibile tecnica individuale dei musicisti che si sono avvicendati in questo che è nato come un progetto personale di Mark Boals.
La classica frase "
cresce con gli ascolti", da quanto volevo usarla! E questo è proprio il caso, di un disco che man mano viene assimilato e diventa "bellino", bellino ma nulla più, godibile ad un ascolto leggero e spensierato ma che temo non potrà nulla in termini di longevità contro il passare dei mesi.
Tra la produzione, troppo secca e sbilanciata a favore della solista (col suono identico spiccicato alla Fender avorio di Yngwie), e qualche brano sottotono il disco parte malino con le tentennanti "
Mother Russia" e "
They're Calling Your Name", che potrebbe tranquillamente figurare su "
Fire & Ice" come sonorità.
Col passare dei minuti emergono le cose migliori, l'anhemica e stratovariusiana "
Land of Frozen Tears" e l'hit "
Firewind", trascinante e tellurica nelle parti veloci e monumentale in quelle lente e finalmente convincente al 100%.
Di nuovo qualche alto e basso con la title track sugli scudi e una "
Where Angels Play" decisamente troppo copia/incolla da qualsiasi brano power anni '90, fino a giungere alla buona doppietta finale "
Our World", ballatona strappalacrime, e la conclusiva "
Rain" che, proprio come tutto questo disco, si lascia ascoltare anche grazie a bei riff di chitarra in sottofondo, ma senza alcun brivido di esaltazione e con tastiere poco incisive. Boals, bontà sua, si dà sempre da fare con un dannato e dimostra una tigna invidiabile, ma da solo non può fare miracoli.
Anche questo album, come accaduto lungo tutta la carriera dei Ring of Fire, è un disco da consigliare, assai tiepidamente, a tutti gli amanti dei suddetti musicisti e del metal neoclassico, ma in giro c'è MOLTO di meglio, oggi e nel passato.