Ciao a tutti! Sono Giuseppe Marino, 25 anni (
se se), insegnante, musicista e supereroe mancato. I miei amici mi chiamano
Pippo, chi mi conosce su Internet mi chiama
Sbranf, ma il mio vero nome non è nessuno dei tre. Il mio vero nome è
Cassandro. Bello, vero? Adesso, non mi sembra il caso di storcere il naso; sì, sarà un po’ inconsueto, ma basta farci l’orecchio, è un nome bellissimo, secondo me. E soprattutto adeguato. Da anni, in (quasi) qualsiasi ambito, ovunque mi metta, me ne vengo regolarmente fuori (
“e sarà meglio”, nd la mia ragazza) con una frase, un concetto, una profezia, che puntualmente, a distanza di tempo, si avvera. E nessuno ci credeva. E tutti mi davano del cretino, del visionario. Povero Cassandro. Vabè, che ero venuto a fare qui? Ah sì, la recensione dei
Transatlantic. Dunque, andiamo a leggere l’incipit della mia rece di “
The Whirlwind” del 2009; per vostra comodità ve la copio/incollo, non vorrei vi stancaste troppo a cliccare quelle due-tre volte di più. Ecco cosa scrivevo ormai cinque anni fa:
Giuseppe-Pippo-Sbranf-Cassandro ha scritto precedentemente:
“Se davvero dovessero volerci otto anni per ascoltare un altro album di questa caratura, beh, amici lettori, vi dico che sarei tranquillamente disposto ad aspettare. Se mi dovessero dire che Portnoy lascia i Dream Theater per suonare solo nei Transatlantic, ne sarei più che felice… Insomma, preparatevi a leggere la modesta recensione di quello che, per il sottoscritto, è l’album dell’anno 2009.”
Ooooh, là. Cassandro. Ora, cosa si evince dalle mie parole? Cosa evincete? (
Evincete? Ma è italiano? Boh). Io, fossi in voi, evincerei così a occhio un paio di cosette:
1) Portnoy lascia i Dream Theater (ci ho beccato)
2) Per suonare
solo nei Transatlantic (ci ho beccato un filino meno)
3) Se davvero volessero volerci otto anni (E QUI CASCA L’ASINO!)
Ecco a voi, dunque, il nuovo album dei Transatlantic, intitolato “
Kaleidoscope”, sottotitolo: “
When the donkey fell”.
In due parole: “Kaleidoscope” è esattamente quello che vi aspettereste da un album dei Transatlantic. E la frase appena vergata assume, come per magia, un significato buono, uno brutto, uno cattivo.
IL BUONOÈ il classico Transatlantic album: prog rock di un livello che più raffinato non si può, melodie ariose e momenti musicalmente esaltanti, a cura di uno dei cosiddetti “supergroup” più riusciti della storia recente. Due lunghe epic, una in testa ed una in coda, ed in mezzo una manciata di brani un filo più radio-friendly, ma sempre con il trademark “Transatlantic” visibile da mille chilometri di distanza.
IL BRUTTOTutto, dalla prima all’ultima nota di questo disco, suona come già sentito, e cancella qualsivoglia effetto sorpresa, cosa che non era ASSOLUTAMENTE successa con i due capitoli precedenti. E questo fa male al cuore. Ascoltandolo millanta volte, sono stato colpito dal cosiddetto “
tea-table effect”: quella sensazione, ossia, che tutto sia stato pianificato, costruito ad arte, autosaccheggiandosi in più d’una occasione, tenendo in studio il lettore cd sempre pronto, per andare a riascoltare cosa fatto in passato, in modo che il presente vi assomigli il più possibile.
IL CATTIVOIl cattivo è che, a differenza dell’immenso ed inarrivabile “The Whirlwind”…. (
oddio non lo riesco a dire)… ecco… (
“cavolo, com’è dura” altra citazione della mia ragazza, ndr)… beh, mi è già passata la voglia di riascoltarlo. E, ripeto, non c’è una nota brutta che sia una in questo album. La prima suite omaggia (giustamente) anche il “quinto membro”
Daniel Gildenlow, presente in una breve sezione del quarto movimento (“
Written in Your Heart”) girando, in pieno Transatlantic-style, attorno ad un motivo portante, che (tanto per cambiare) si riproporrà come opener e closer dell’intera suite. Segue quella CIOFECA STELLARE di “
Shine”, canzoncina semi-acustica di chiara matrice Morse, per la quale è stato tra l’altro realizzato uno dei video più tristi della storia della musica moderna. Le cose cominciano a cambiare un po’ con la bellissima “
Black as the Sky”, che tira fuori i muscoli, i suoni e le atmosfere che ci hanno fatto innamorare dei Transatlantic; meravigliosa nella sua semplicità la sezione centrale bass-drums, sulla quale si innesta un Neal Morse (e un Roine Stolt) in stato di grazia. Rudess ascolta e impara, ca**o.
G-U-S-T-O, non c’è bisogno di essere dio per essere grandiosi. “
Beyond the Sun”, poi, è una sorta di preghiera in musica, in cui delle slide guitars di floydiana memoria fanno da contrappunto alla voce sofferta di Neal (principale singer di questa band, onestamente non alla sua prova migliore), il tutto incorniciato da malinconici archi ed un’atmosfera dolorosa e sofferta. Tu chiamalo, se vuoi,
breather. Sì, perché a seguire, arrivano freschi freschi i trentadue minuti della
title track, e qui grazie al cielo si torna a fare sul serio, con un’epic song monumentale, bella, fresca, da ascoltare trecento volte. Ma alla lunga, anche qui, il famoso “effetto tavolino” si ripresenta, puntuale come le tasse.
Ora, attenzione. Se potessi avere un modulo da compilare per poter avere dischi di questa qualità, pur con tutti i “difetti” che ho elencato, apporrei (
apporrei? Ma è italiano? Boh) la mia firma col sangue ed un sorriso ebete sul volto. “
Kaleidoscope” è un disco meraviglioso per lo standard dei dischi che mi capita di ascoltare, ma è un disco bellino e più che sufficiente se vado a riascoltarmi la discografia dei Transatlantic. Non parliamo neanche del bonus cd e di quelle popò di covers, eseguite con la solita magnificenza. Quella è la mano di zio Mike Portnoy, ma, come si dice a Eton, “
grazie al ca**o”: se io fossi Portnoy-Trewavas-Stolt-Morse, e suonassi con quegli altri tre, mi verrebbe da dio anche la sigla di Peppa Pig. Non fa testo, per quanto sia bellissimo riascoltare (o scoprire, in un paio di casi), brani storici del passato risuonati con gusto e rispetto da questi quattro mostri fotonici.
That’s all, folks.