Un fantastico e soave interludio tastieristico ci introduce alla grande nella dimensione del nuovo Dragonland, band svedese che in brevissimo tempo ha saputo ritagliarsi un grande spazio all’interno del panorama power grazie a due album mirabolanti come il primo “The Battle of the Ivory Plans”, ancora un poco immaturo, ed il successivo entusiasmante “Holy War”, lavori che hanno spianato la strada ai Dragonland, privi di una promozione degna di questo nome a causa della loro prima etichetta, la volenterosa ma piccola label greca Black Lotus. Tanto è stato il successo di questi scandinavi che subito la Century Media ha voluto metterli sotto contratto e lanciarli alla difficile prova del terzo disco, prova che diciamolo subito li ha immediatamente snaturati un poco rispetto alle prime prove. Parlo di snaturamento mentre altri avrebbero parlato di maturazione, in quanto i nostri si dimostrano meno legati a quel becer metal che li ha lanciati, essendo “Starfall” molto più “delicato” e strutturato; insomma, meno doppia cassa a manetta e cori lanciati all’altezza delle stelle, e più soluzioni ragionate, cercando anche delle finezze a volte sorprendenti, a volte invece non ancora agevolmente gestibili dai Dragonland. Certo che l’opener “As Madness Took Me” è veramente da brivido e da lacrimuccia, tanto è coinvolgente il suo incedere e le sue melodie, sfocianti in un chorus che potremmo senza dubbio definire “glorioso”. Una volta ripresisi dall’emozione, l’orecchio cade immediatamente sulla produzione davvero perfetta di questo album, ottenuta da Tom Englund degli Evergrey (ahi ahi ahi…ecco chi ha insinuato nei Dragonland questa vaghissima vena prog, privandoli della componente becer power!!!) nei Division One Studios. Si prosegue con la breve e dinamica title track, il singolo per antonomasia costituito da melodie catchy ed un refrain facilmente memorizzabile, seguita da una “Calling My Name”, molto simile inizialmente ai Nocturnal Rites di “The Legend Lives On”, per poi proseguire su coordinate care agli Zonata degli ultimi album. Da qui in poi, “Starfall” accusa alla distanza, presentando dei brani non brutti, nemmeno scontati, ma non così carichi di energia come i nostri ci avevano abituato in passato, magari anche abusando di entusiasmo e freschezza. Ed è così che riffs magici come quelli di “In Perfect Memory” vengono appesantiti troppo e resi più pesanti da digerire, e lo stesso avviene per i brani a venire come “The Dream Seeker”, la troppo lunga “The Shores of Our Land” dove i Dragonland giocano a fare gli Elegy, mentre ritornano in sé nella successiva “The Returning” e così fino alla trilogia finale “The Book of Shadows”, divisa in tre parti per un totale di undici minuti ma decisamente superflua nella prima e nella terza parte, davvero da catalessi. In definitiva un come back che doveva sancire l’esplosione dei Dragonland e che invece si rivela un mezzo passo falso, alla luce della seconda metà del disco ed alla mancanza di brani sguaiati ma irresistibili come il vecchio “Majesty Of The Mithril Mountains” che i Dragonland farebbero meglio a ripescare in fretta.
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