Ispirato da suggestive “vicende extraterrestri”, “Signals” ostenta in maniera evidente la venerazione dei suoi autori, gli scozzesi
Preacher, per le sonorità dilatate, soffuse e sofisticate dei Pink Floyd
post-Barrett, a cui aggiungono suggestioni di Marillion, Alan Parsons (ascoltare lo strumentale “Arrival” per referenze immediate …) e bagliori interpretativi del Bowie “spaziale”.
Il risultato è complessivamente piacevole e d’effetto, e anche se la “dipendenza” è abbastanza manifesta, intervengono classe,
pathos e una discreta intensità espressiva ad allontanare fastidiose sensazioni di adulterazione e manierismo.
Questo non significa avere a che fare con nuovi sconvolgenti “fenomeni” del
prog rock europeo, eppure le languidità “cosmiche”, le atmosfere solenni e la rarefazione estetizzante di cui è costellato il programma riescono ad affascinare a sufficienza l’astante, a patto, ovviamente, che il soggetto in questione sia un profondo estimatore delle melodie soffici, oniriche e “metafisiche”.
Personalmente considero i “due” Murphy, Martin con il suo vellutato e fascinoso timbro
british e Greg con un sensibile
guitar-work d’estrazione tipicamente Gilmour-
esque, il classico valore aggiunto della situazione, ma in realtà è un po’ tutta la formazione a risultare affiatata e compatta, naturalmente votata a questa forma di
psichedelia vaporosa e, in qualche modo, di facile “consumo”.
“The sea”, “First contact”, i profumi orientali di “Friends of my dreams” e poi ancora il tocco decadente della seducente
title-track e delle incantevoli “The factor”, “Our destiny” e “I will be there”, appaiono i momenti più efficaci di album molto “distensivo” e disciplinato nelle sue intenzioni artistiche … se avete bisogno di una “pausa” o avete nostalgia delle ben note
ouvertures Floyd-
iane, i Preacher possono rappresentare una scelta plausibile.
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