Fabrizio Frizzi a Scommettiamo Che... ha scritto precedentemente:
Beh, incredibile!
Incredibile davvero che il quartetto romano stia galoppando in formazione compatta verso l'olimpo del death metal brutale da più di 11 anni senza aver ancora sbagliato nulla, senza aver mai deviato dal proprio percorso smarrendo la strada. Giunti al sesto capitolo, il nuovo
Regicide non fa che confermare la bravura e la costanza di questa band, internazionalmente riconosciuta tra i portabandiera del genere, impegnata come non mai a spargere fuoco e fiamme. Naturalmente ogni album uscito differisce dall'altro per alcuni aspetti, quest'ultimo lavoro è giocato maggiormente su un dualismo tra velocità trita-ossa e parti rallentate viziosamente malsane, in cui spesso aleggia lo spettro dei
Morbid Angel e soprattutto dei
Nile.
Dopo una breve introduzione (una sorta di marcia) scopriamo che i primi pezzi fanno proprio parte del "lato" veloce del gruppo con una batteria sugli scudi per rapidità e varietà a fianco della chitarra di
Giulio che viaggia precisa macinando riff con cadenza millimetrica, senza disdegnare pennellate melodiche in fase solista. Ogni tanto le canzoni si aprono a cori in
Behemoth-style e canti gregoriani vengono inseriti nelle parti più lente (
Sealed Into Ecstasy), sempre in modo molto contenuto, gli
Hour of Penance non vogliono infatti aggiungere qualsivoglia orchestrazione o elemento sinfonico, solo sbatterci in faccia pura brutalità. Continuano a scorrere una dopo l'altra frustate di inaudita potenza ed è impossibile non notare la grande mole di lavoro che sta dietro a tutti questi riff (davvero tanti), stacchi repentini, parti di chitarra doppiate, filler di batteria e abbastanza spesso filtri sulla voce. Ecco, questi espedienti utilizzati per rendere le vocals "più demoniache" stancano un pochino e appiattiscono, invece di esaltare, il lavoro del buon
Paolo.
Nella seconda parte del lavoro da segnalare
Reedeemer of Atrocity aperta da una pioggia di fuoco in cui i piatti della batteria sembrano lo sferragliare di baionette e spade al centro di un conflitto, la canzone è spezzata in diverse occasioni da un riff posto in primo piano e da successive accelerazioni devastanti e contare i colpi sul rullante è un po' come cercare di indovinare il numero di fagioli nel vaso di "
Pronto, Raffaella?", sai che sono tantissimi ma non riesci a quantificarli. La title track, sorprendentemente, non è la classica canzone diretta ma è invece breve, elaborata, stratificata e ricca di cambi di tempo, tutti elementi che si contrappongono alle sfuriate micidiali. Altro brano da segnalare è
Theogony, canzone posta in chiusura, che riesce ad affogarti poi sfregiarti con riff sui quali le ombre di
Azagthoth e
Sanders aleggiano in modo marcato.
Tirando le somme, il disco come detto, è molto vario il che è sicuramente un punto a favore nel susseguirsi degli ascolti e la buona scelta effettuata per i suoni della batteria, naturali e non finti e triggerati, aiuta non poco nella percezione "umana" di tutta questa cattiveria in musica. A proposito di suoni, non ho ancora parlato del lavoro di
Marco Mastrobuono, tenuto abbastanza "dietro" e con una presenza grassa e avvolgente, poiché la copia digitale in mio possesso (probabilmente troppo compressa) presenta bassi piuttosto impastati e non chiaramente percepibili. Sono sicuro, tuttavia, che il sempre valido lavoro di
Stefano Morabito in fase produttiva verrà fuori quando ascolterò il CD fisico in arrivo. Ottimo lavoro che secondo le mie preferenze si colloca poco sotto
Paradogma andando, con il capolavoro
The Vile Conception, a formare un trittico della brutalità.
In nomine patris, filiis et brutalist sanctus.