Anche se non abbiamo ancora a disposizione le necessarie “certezze” (“
un indizio è un indizio, due indizi sono una coincidenza e tre indizi fanno una prova”, sosteneva la celebre giallista Agatha Christie), dopo il recente “caso” dei California Breed, non vorrei che il prossimo
trend del
business discografico contemporaneo fosse all’insegna del “super-gruppo con
guitar-hero emergente”.
WAMI, infatti, non è altro che l’acronimo dietro il quale si “celano”, attraverso le iniziali dei loro cognomi, personaggi dai
curricula ampi e di comprovato valore come Doogie White, Vinny Appice e Marco Mendoza, mentre la lettera finale della sigla è accordata al nome di Iggy Gwadera, giovanissimo chitarrista tanto abile ed esuberante da impressionare Mendoza durante un’esibizione degli Anti Tank Nun (gruppo in cui milita con Tomasz ‘Titus’ Pukacki degli Acid Drinkers) a supporto dei Thin Lizzy e dare l’avvio, di fatto, al progetto in questione, completato attingendo alla florida agenda di “amicizie qualificate” verosimilmente in possesso del bassista californiano.
Con il titolo vagamente “sfacciato” di “Kill the king”, esce per la Metal Mind Productions il primo frutto concreto di questa collaborazione, una celebrazione della storia dell’
hard britannico (Sabs, Purple, Rainbow, Whitesnake, con l’aggiunta di un pizzico dell’Ozzy solista …) sicuramente poco “imprevedibile” e tuttavia davvero assai gradevole per intensità espressiva e per felice approccio compositivo (da rilevare che la stesura dei brani è in gran parte appannaggio dei fratelli Cugowski, contributori anche in fase esecutiva assieme ad altri ottimi musicisti polacchi) ad un soggetto musicale
straordinario e altrettanto
inflazionato.
In tale contesto, inevitabile che i riflettori siano puntati su Gwadera e diciamo subito che l’imberbe
carneade si disimpegna con una certa disinvoltura, esibendo ricchezza di fraseggio e
solos ficcanti, senza “strafare”, limitando lo sfoggio delle sue doti tecniche sicuramente rilevanti alla funzionalità dei pezzi, sempre piuttosto equilibrati e focalizzati.
Insomma, nonostante le palesi fonti ispirative, il disco soddisfa e coinvolge, non eccede nel facile calligrafismo e procurerà, ne sono persuaso, vibrazioni positive a tutti i
fans del genere, che potranno deliziare i propri apparati
cardio-uditivi con adattamenti piuttosto convincenti della loro materia preferita, qui denominati “Wild woman (You oughta know)”, "Guardian of your heart” (cantata in coppia con il sorprendente Piotr Cugowski …), “Heart of steel”, "Young blood” e “Transition”, fino ad arrivare all’irresistibile spinta drammatica di "Exodus (The red sea crossing)”, che mi consente di sottolineare le capacità interpretative e la brillante duttilità vocale di Doogie White, almeno nel governatorato della fonazione modulata presieduto da Gillan, Coverdale, Dio e Joe Lynn Turner.
Nell’attesa di verificare quale sarà la prossima “moda” del
rock-biz, godiamoci “Kill the king” … i “Re” non rischiano l’incolumità (artistica) e possono stare tranquilli, ma la loro
gloria imperitura passa anche per l’influenza esercitata su “sudditi” autorevoli come i WAMI.
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