IntroduzioneCavalcando il clamore suscitato dalla "
svolta metal di Vasco Rossi", le cui frasi non abbiamo ancora capito se siano frutto di alzheimer, di un semplice delirio post sbronza oppure lucida follia, possiamo dire che chi ha il diritto di sbandierare "
io sono ancora qua" è senza dubbio il combo di Birmingham. Non starò qui a ripercorrere la carriera del fondamentale e leggendario gruppo inglese, per quella ci sono i libri di storia, mi limito invece ad analizzare un lavoro di una band che dopo aver fatto scuola e toccato il cielo con un dito, dopo aver vagato un po' nel deserto, ritrova la strada che la porta allo sprint finale, a tagliare il traguardo di una carriera ultra quarantennale unica. Non metterei la mano sul fuoco che finisca tutto con
Redeemer of Souls, anche perché l'infinito farewell tour con cui dovevano congedarsi dalle scene e l'abbandono dello storico
K.K. Downing, avrebbero fatto presagire tutto tranne che un nuovo disco.
Considerazioni generaliLa mano del nuovo
Richie Faulkner (che già sostituisce sul palco
K.K. dal 2011 con un impatto visivo molto simile a quello del biondo ex axeman) si sente bene sul disco e mi allargo dicendo che senza di lui, molto probabilmente, non ci sarebbe stato questo album. Non lo dico perché ritengo i
Priest del 2014 incapaci di incidere qualcosa, ma perché innegabilmente
Richie ha portato nuovo entusiasmo, voglia di fare e una ventata di freschezza ad una band che (a parte
Scott Travis) poggia su ultrasessantenni. Tutto questo si riesce a sentire in
Redeemer of Souls, un disco vario che si lascia fortunatamente alle spalle i pomposi esperimenti di
Nostradamus, che non rincorre la velocità e la potenza di
Angel of Retribution (il quale, a sua volta voleva un po' replicare
Painkiller, almeno in alcune canzoni) ma si posiziona idealmente nella loro discografia anni '80, con una buona influenza '70. I
Priest hanno convenuto che il buon
Halford (che ha un anno in più di
Vasco) non ce la può più fare a sfoderare i suoi acuti devastanti, che il suo range vocale è limitato, saggiamente hanno così optato per brani non troppo veloci, non troppo cattivi, spesso basati su mid-tempo e sul pathos.
Breve (e palloso) track by trackDopo l'apertura affidata alla buon heavy classico di
Dragonaut (già resa disponibile in una delle mille mila anteprime rilasciate) e continuando con l'immediata e trascinante
title track, si arriva alla prima sorpresa del disco:
Halls of Valhalla. Un pezzo costruito su riff graffianti che sprigiona metal ed epicità da ogni dove, che non sfigurerebbe su uno dei loro classici e con un
Halford che in qualche breve momento (con diversi effetti ed aiuti da studio) sfodera i suoi acuti in modo convincente. Nella prima parte dell'album, un altro pezzo da segnalare è
March of The Damned, mid tempo molto buono che poggia su chitarre semplici ma trascinanti con
Rob che tiene la scena muovendosi su registri più "comodi". Già a questo punto è evidente che chi si aspettava un
Painkiller part II (ve lo giuro, ci sono) dovrà cambiare le sue aspettative, d'altronde i
Priest hanno sempre inciso album differenti e questo non fa eccezione.
Proseguendo con le canzoni, incontriamo il buon heavy metal up-tempo di
Down in Flames seguita dalla ridondante
Hell & Back, mentre invece un sussulto ce lo regala
Cold Blooded, brano anthemico e toccante che a metà esplode con un potente riff ed assoli a seguire di pregevole fattura. La sforzatissima
Metalizer prova con la sua velocità ad inseguire la potenza di una
Judas Rising (per citarne una "recente") senza riuscirci e mostrando un
Halford al limite (del ridicolo) in diverse parti. Voglia di blues? Ecco
Crossfire, pezzo apprezzabile per intenzioni ma che nella pratica fallisce il suo intento andando a "metallizzare" (male) un brano che gira intorno ad uno scontato riff blues. Avrei goduto davvero con un pezzo tipo
Whorehouse Blues dei
Motorhead, qui invece i
Priest hanno osato, ma non fino in fondo. Gli arpeggi e le campane di
Secrets of the Dead ci riportano alla realtà consegnandoci un buonissimo brano che richiama un po'
A Touch of Evil, mentre ritorna la potenza con
Battle Cry e finalmente
Scott Travis riesce a sciogliere le catene che lo tengono prigioniero per gran parte del disco, ma
Rob... beh dà davvero tutto se stesso ma in diversi frangenti i suoi acuti sono un miagolio. Detto da uno che lo ama alla follia. Conclude questo lunghissimo lavoro (oltre un'ora) la delicata ed apprezzabile ballata,
Beginning of The End.
Considerazioni finaliLo spazio dato a
Faulkner è molto, anche negli assoli, con un
Glenn che si fa vivo quasi timidamente, senza la voglia di stare sotto i riflettori e senza che i due riescano a creare fraseggi scolpiti nella pietra o uno shredding da ricordare a lungo. Il basso di
Ian è acceso e si sente più del solito, questa è una grande notizia visto che il suo operato, negli anni, è quasi sempre stato nell'ombra.
Scott stringe i denti, vorrebbe pestare di brutto e farci sentire nuovamente la sua bravura ma si trattiene, intelligentemente, per non caricare troppo le canzoni la cui furia risulterebbe ingestibile. E
Halford?
La Roberta (è così che lo chiamo affettuosamente) si comporta bene e ci regala una buona prova usando l'esperienza e tornando protagonista in alcuni frangenti ma, ahimè, esagerando in certe occasioni dove finisce per strappare più di un sorriso.
Ma
Redeemer Of Souls ha un grande nemico: la produzione.
Qualcosa di inaccettabile, a livello di demo. Ora, non so se abbiano voluto ricreare intenzionalmente uno scenario audio ottantiano, ma registrare oggi in questo modo non funziona. I pezzi non hanno dinamica, sono piatti, le chitarre non urlano, la batteria è spenta, non è stata messa nessuna enfasi nelle canzoni e questo, in un disco delle durata di 62 minuti, uccide. Senza contare le cinque bonus track che non ho potuto sentire. Mi chiedo come sia possibile che una band così grossa ed una major sbaglino in questo modo. Ed i
Judas Priest non sono gli unici tra i grandi nomi che negli ultimi anni hanno cannato la produzione. Assunzioni agevolate di sordi o affetti da acufene? Gatti che scorrazzano sul mixer? Monitor con woofer scollegati (vedi
Born Again dei
Black Sabbath)? Sabotatori che agiscono nell'ombra? Mistero, roba per
Bossari e
Ruggeri.
Reedemer of Solus, nonostante tutto, è un disco piacevole, meglio di quanto mi aspettassi, fatto di buoni pezzi che, come dice il mancato Premio Oscar
Jerry Calà, "acchiappano" e già dopo tre o quattro ascolti ti ritrovi a cantarli in macchina e fare headbanging. Niente di rivoluzionario o che apra nuovi scenari evolutivi alla musica, quello lo hanno già fatto insegnando al mondo la via del metallo e, francamente, non era nemmeno lecito attendersi. Valide canzoni da ascoltare e riascoltare sì, quelle ci sono. Se questo sia un addio non lo so, so per certo che rimarranno immortali.