Tutti, tutti i siti specializzati (soprattutto quelli americani) esaltano questo album, parlano di questo ritorno degli At The Gates come "il disco migliore dell'anno", "... dà dipendenza come l'eroina", "... At War With Reality è il disco di comeback migliore della storia del metal!". Da me queste parole non le sentirete di certo, non sentirete nemmeno offese, perché ho un buon autocontrollo.
Com'è dunque il nuovo
At The Gates? Una presa per il culo.
E ora sapete anche che non sono dotato di un grande autocontrollo.
Perché questa reazione? Perché questo sdegno di fronte ad uno dei gruppi con cui sono cresciuto, a cui sono più affezionato?
Semplicemente perché si poteva e si doveva evitare.
Mentre scrivo ho in mano una copia autografata di
The Flames Of The End, triplo DVD contenente un documentario sulla band, concerti e rarità, fatto uscire nel 2010 a celebrazione della reunion degli svedesi sui palchi. Benissimo, ben vengano queste resurrezioni dal vivo ma la cosa si doveva chiudere qui, come insegnano
Twisted Sister ed
Emperor. Almeno, così è come la penso io.
Scazzi interni dovuti ad una direzione incerta dei
The Haunted (l'altra band dei gemelli
Björler e di
Erlandsson), l'iperattività di
Tompa Lindberg, il profumo di euro e la celebrità (che per gli
At The Gates è stata solo postuma), hanno convinto i Nostri a produrre materiale inedito sotto lo storico nome ad appena 19 anni di distanza da quello
Slaughter of The Soul riconosciuto come pilastro del melodic death scandinavo.
E il nuovo
At War With Reality parte proprio da qui. Dopo l'intro spagnoleggiante,
Death At The Labyrinth riprende il tupa tupa di
Blinded by Fear e la sua struttura (opener di
Slughter of The Soul, per i kryptoniani), rendendo immediato fischiettarci sopra la vecchia melodia, diventata ormai materia scolastica per i giovani metaller. Che uno può anche pensare che sia un fatto positivo il ricominciare da dove ci si era lasciati no? Illusione. Tolta la successiva
title track dai bei riff che richiamano molto i
The Haunted, quello che segue è la fiera della mediocrità, un'accozzaglia di canzonette insipide che avrebbe potuto scrivere qualsiasi band melodic death e si sarebbe presa un 6/6,5 di stima. Qui però non si può. Se il gruppo portabandiera di un certo modo di intendere il death, capostipite del sound di Gothenbourg, si mette a fare un disco con b-sides di loro vecchi lavori, la vena mi si gonfia. Non dico di recuperare sonorità di
The Red in The Sky Is Ours oppure
With Fear I Kiss The Bourning Darkness (il mio preferito), erano ragazzi e sarebbe totalmente irrealistico avere pretese di questo tipo, però dai... Analizzandolo a mente fredda, quello che rimane dopo l'ascolto (ripetuto più e più volte, malfidati) è tanta melodia, negli assoli e nei riff, senza che nulla di incisivo sia riuscito ad attirare l'attenzione. Un mood goticheggiante pervade il lavoro, da
The Circular Ruins a
The Head of The Hydra son tutti pezzi carucci ma insipidi, che non affondano mai, con quest'aura vagamente dark perenne. Sul finire del disco sono piazzate
Eater of Gods e
Upon Pillar Of Dust che partono entrambe in modo carico, tu ci credi, poi si fanno immancabilmente melodiche, non affondano il colpo e ti viene da pensare "Ma che hanno? Paura?".
Gli arrangiamenti sono molto curati, qualche riff indovinato c'è, la voce di
Tompa è sempre marcia a dovere e, come dice il buon Emiliano "Kalhyma" Verrecchia, "farebbe suonare At The Gates anche un ave Maria" ma, ripeto, l'aspetto melodico ha troppa presenza e non ha una direzione. Rimanendo nei paraggi,
Exit Wounds, l'ultima fatica dei
The Hauted uscita tra l'indifferenza generale il 25 agosto, è molto ma molto meglio.
Un comeback che si poteva evitare, che non aggiunge nulla, se non note stonate, ad una carriera avvolta sinora nella leggenda.