Imbattermi ora in un disco dei
Bethlehem è stato come rivedere un amico dei tempi delle superiori. Sì, proprio quelli che per cinque anni costituiscono un elemento costante e immancabile della tua esistenza ma che una volta approdati all’università, vuoi il cambio di città, le nuove compagnie o semplicemente la pigrizia, finisci per perdere di vista.
Ho adorato –e adoro- il trittico di full length con cui la band tedesca ha fatto il suo ingresso nel nero cosmo del metal estremo: il sulfureo proto-doom/black dell’esordio
Dark Metal, il successivo
Dictius Te Necare (uno dei massimi esempi di paranoia depressiva trasposta in note), il capolavoro
Sardonischer Untergang im Zeichen Irreligiöser Darbietung (
S.U.I.Z.I.D. per gli intimi)…
Dopodiché, vai a sapere il perché, ho tagliato i ponti, giungendo sino ad oggi senza aver mai posato l’orecchio su una sola canzone dei
Bethlehem che fosse successiva al 1998. Oggi l’ho fatto, e mi trovo a dir poco spiazzato: l’amico delle superiori è cambiato al punto da risultare irriconoscibile.
Oltre che irriconoscibile, il nuovo corso è altresì di ardua interpretazione; presumo dipenda dal fatto che gli stessi musicisti non sappiano che pesci pigliare.
In effetti:
- l’opening track
Ein Kettenwolf Greint 13:11-18 e la conclusiva
Antlitz Eines Teilzeitfreaks optano per un decadente gothic teutonico indeciso tra
The Vision Bleak,
Crematory ed
Ewigheim;
- le sommesse
Gebor’n Um Zu Versagen,
Egon Erwin’s Mongo-Mumu e
Letale Familiäre Insomnie rievocano timidi spettri wave anni ’80;
-
Nazi Zombies Mit Tourette-Syndrom (titolo dell’anno) e
Höchst Alberner Wichs flirtano col dark più minimale;
-
Spontainer Freitod e
Warum Wurdest Du Bloß Solch Ein Schwein? mantengono in vita un flebile legame con le derive virulente del nostro genere favorito.
Troppi ingredienti per un unico piatto, tenuto assieme dall’utilizzo del teutonico idioma e da un impianto lirico che ancora una volta indugia su morte e follia, ma comunque sbilanciato e per nulla armonioso a livello di sapore.
Senza contare che il combo capitanato da
Jürgen Bartsch (se non erro unico superstite della lineup originale) sembra ormai a suo agio solo nei contesti più melodici, denunciando vistose pecche allorquando sperimenta o pigia il tasto della cattiveria.
Insensato, alla luce di ciò, paragonare i
Bethlehem di oggi a quelli di un tempo: tralasciando il divario qualitativo, sarebbe come mettere a confronto una sachertorte con un gulasch.
Valutato in sé e per sé,
Hexakosioihexekontahexaphobia (“paura del 666” in greco antico) un'ampia sufficienza la strappa eccome. Solo un consiglio: chi, come me, ha imparato a conoscerli ai tempi delle superiori, faccia finta che non siano loro.