Gli statunitensi
Atriarch approdano con questo “
An Unending Pathway”, loro terzo full-length, sulle sponde della leggendaria
Relapse Records, la qual cosa certifica, o almeno dovrebbe, la bontà e la qualità della loro proposta musicale.
La proposta del trio è alquanto peculiare, sospesa com’è tra doom rock, dark/new wave, sludge, musica progressiva ed echi black metal. Il tutto impreziosito da un mood oscuro ed esoterico, sia nei testi che nell’iconografia, e giovandosi inoltre di un singer che fa dell’interpretazione teatrale un proprio punto di forza, morbosa, decadente, gotica.
Quanto detto potrebbe indurvi in confusione, l’enorme mole di riferimenti è decisamente spiazzante, ma vi assicuro che il risultato è assolutamente pregevole.
Il disco si apre con “
Entropy”, il cui inizio lento, sussurrato, dischiude le porte ad una ouverture grandiosa, richiamando direttamente “
Black Sabbath” (la canzone), dell’omonimo disco dell’omonima band di
Ozzy & co., anche se è possibile sentite influenze di
Bauhaus e
Joy Division, prima di un finale urlato, disperato.
“
Collapse” è musica rituale, sembra di sentire
Paul Chain, con il riff portante che vi entrerà in testa per non uscirne più, prima del solito finale che è puro black metal.
“
Revenant” ha un incedere funereo, è lenta, venefica, ti avvolge come le spire di un serpente costrittore, prima della solita deriva verso il pianto e lo stridore di denti finale.
“
Bereavement” cambia le carte in tavola, esordendo come un caterpillar, death/black acido che improvvisamente rallenta dando il là ad uno sludge di alta scuola, prima del cacofonico finale.
“
Rot” è una canzone che potrebbe essere stata scritta dagli
Shape Of Despair, è angoscia pura, è atmosfera luttuosa e apocalittica.
“
Allfather” continua sui toni funerei, lugubri, decadenti, prima dell’acme centrale, dove la musica si fa tesa, violenta, disperata.
La conclusiva “
Veil” con molta fantasia potrebbe essere descritta come
Burzum di “
Det Som Engang Var” sotto acido che fa cover dei
Pentagram. Ok, forse sono io ad essere sotto acido, ma è incredibile come anche una nota possa richiamare alla mente le influenze più disparate.
Gli
Atriarch pongono in scena un rituale funereo, che non si focalizza sugli elementi corruttibili dell’umanità (carne, sangue e ossa), quanto piuttosto sul sostrato filosofico della decadente natura umana. Non vanno a scavare in una cripta mefitica, quanto negli abissi infernali dell’Ade.
Un disco fuori dai canoni, al tempo stesso bellissimo e terribile. Da avere.