C’era una volta il
grunge, amato e odiato come pochi altri stili musicali apparsi nell’intero globo terracqueo e, sorpresa, c’è
ancora. Non sto parlando solo della sua fantomatica declinazione
post, ma di una presenza ancora importante del genere in formulazione autoctona, sostenuta dagli storici propugnatori Soundgarden, Pearl Jam e Alice In Chains nonché da un numero crescente di giovani epigoni, per i quali i gruppi appena nominati rappresentano un perentorio modello.
A quest’ultima categoria appartengono sicuramente i capitolini
Mad Shepherd, all’esordio sulla lunga distanza con “Monarch”, un albo autoprodotto che, alimentato dalla voglia di riscatto ed emancipazione da una società contemporanea che frustra e soffoca l’individuo (ieri come oggi … il titolo si riferisce a un progetto sviluppato tra gli anni ’50 e ’60 dalla CIA il cui scopo era di controllare la mente umana e di trasformare gli individui in ignari agenti segreti, attivati da determinati comandi vocali e così costretti a eseguire qualsiasi ordine), s’ispira in maniera parecchio evidente all’immaginario Seattle-
iano, senza preoccuparsi troppo delle “imputazioni” di palese devozione inevitabilmente insite in tale scelta espressiva.
E allora diciamo che i Mad Shepherd suonano bene i loro strumenti e fanno buona musica, che le loro influenze sono manifeste (ai summenzionati capiscuola aggiungerei i Bush) e che il loro debutto ci consegna il ritratto di una
band capace di scrivere canzoni assai gradevoli, magari non straordinariamente “creative” eppure piuttosto intense e coinvolgenti, ben lontane dal dover subire l’onta dello
skip.
Ascoltare “Sickman of Europe”, “California”, la title-track, “Believe” (con un vago sentore di Tool nell’impasto sonoro), "So it goes” e “Rising” costringe fatalmente ad aprire il “cassetto dei ricordi” e far ritornare la memoria ai tempi d’oro del cosiddetto “hard rock moderno”, dimostrando, però, al contempo di poter fare una “bella figura” anche in questi nostri tempi di diffusa rivisitazione e rivalutazione della storia del
rock.
Per “uscire” in maniera risoluta e attestare di poter fornire un contributo “proprio” alla causa ai nostri manca ancora un po’ di propensione al “rischio” (anche se qualcosa s’intravede già in “Rebirth” e nella suggestiva “Blood thief ”), da aggiungere al tentativo di reperire soluzioni interpretative meno Vedder-
iane nella dotata laringe di Stefano Di Pietro e ciononostante il potenziale per superare i limiti di una prestazione eccessivamente “rassicurante” non manca … attendiamo sviluppi.
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