Austere,
Woods of Desolation,
Alcest,
Drudkh,
Burzum,
Nyktalgia.
Ecco, ci mancava solo che annunciassero un featuring con
Dickinson (forza
Bruce, torna presto in piena forma!) e un concept su
Ken il Guerriero per aumentare ulteriormente il mio hype…
Cari
Dynfari, non so se sia stata una decisione vostra o della -eccellente- label
Code666 quella d’indicare a metro di paragone una serie di band d’irraggiungibile grandezza, che peraltro adoro in modo viscerale dalla prima all’ultima; fatto sta che mi sono approcciato a
Vegferð Tímans (
Journey of Time la traduzione in inglese) con l’acquolina propria di chi sta per addentare una succulenta fiorentina da un chilo cotta a puntino.
Non vi nascondo che, quando il mio palato ha percepito la stoppacciosa consistenza di un pezzo di scamone lasciato troppo sul fuoco, un po’ male ci sono rimasto…
Il quartetto islandese (che era un duo in occasione dei precedenti full lenght) si rende autore di un black metal tinto di ambient dall’esasperante timidezza e introspezione. Purtroppo, esasperante è proprio l’aggettivo più spesso baluginato nella mia testolina durante i ripetuti -sia maledetto il mio senso del dovere- ascolti.
Bando ai sofismi dialettici: a mio avviso,
Vegferð Tímans è noioso. Molto noioso.
Certo, si potrebbero anche rintracciare motivazioni simil-tecniche alla base della scarsa resa del platter: la staticità del songwriting applicata alla durata sovente eccessiva dei brani, l’indolenza della sezione ritmica, la freddezza delle melodie, la scarsa incisività delle parti tirate, la monocromaticità delle sparute linee vocali e l’inefficacia di una produzione troppo algida e ovattata.
Tuttavia, così facendo, si finirebbe per eludere il fulcro del problema, ossia che quest’album manca di feeling.
Quando si discetta delle branche più emozionali del black metal, siano esse post, cascadian, shoegaze, depressive, atmospheric, astral e tutte le definizioni più fantasiose che vi vengano in mente, il primo e più importante parametro di valutazione dev’essere individuato nella capacità di smuovere l’ascoltatore. Il che è proprio ciò che distingue in positivo le band citate in apertura: ognuna di esse suscita sensazioni diverse -disperazione, malinconia, amarezza, nostalgia, tristezza, alienazione- ma nessuna lascia indifferenti.
I
Dynfari, ahimè, sì.
Inutile, a questo punto, soffermarsi sui singoli episodi di cui il platter si compone (anche se gli 11 minuti di
Ad Astra vi sembreranno almeno 111): pur non potendosi bollare alcuna canzone come formalmente brutta, nemmeno si può soprassedere sull’assoluta assenza di coinvolgimento che le stesse riescono a produrre.
Mi spiace, ma col sottoscritto è andata male; chissà che a voi non scatti il clic emotivo: qualche bel voto in giro per la rete l’ho visto, dunque potrebbe esservi qualche barlume di speranza.
Se accettate un consiglio, comunque sia, volgete lo sguardo altrove.
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