Se siete convinti che i Gorilla o i Baby Woodrose suonino musica retrò, dopo aver ascoltato questi The Blue Van vi appariranno come modernissimi innovatori futuristi.
Quattro ragazzi poco più che adolescenti, che abitano in uno sperduto villaggio del nord-Danimarca ad oltre cinquecento chilometri dalla cosmopolita Copenhagen. La loro filosofia spicciola è che se tu vivi in una metropoli, il contatto quotidiano con altri musicisti porta sempre al confronto stilistico e all’influenza reciproca, mentre chi si ritrova completamente isolato deve generare la sua forma musicale contando solo sulle proprie forze e conoscenze. Un ragionamento ovvio, quasi banale, ma evidentemente nelle case di questi baldi giovanotti c’erano unicamente i vecchi vinili dei loro padri e durante gli eterni inverni scandinavi i Blue Van si sono procurati un overdose di Rolling Stones, Beatles, Kinks, Who, più una bella infarinata di rhythm’n’blues e soul music.
Così è venuto fuori un album che non si può nemmeno descrivere come ispirato agli anni ’60/’70, in realtà è in tutto e per tutto un disco di quell’epoca. Suoni, ritmi, melodie, attitudine e perfino il look appartengono ad un altro tempo, come se oltre tre decenni di rock non fossero mai esistiti. La cosa non sembra affatto forzata e neppure furbamente trendista, al contrario appare assolutamente naturale come se la band non avesse fatto altro nella vita che dividere studio e palco con i vari Mick Jagger, Keith Moon ed Howlin’Wolf.
Una bella faccia tosta questi sbarbatelli danesi, ma anche l’encomiabile coraggio di fottersene altamente di qualsiasi moda contemporanea e la sorprendente capacità di non scimmiottare i grandi classici come fanno tanti (vedi le ultime boy-band che passano in video..) ma di proporre invece un’interpretazione fresca, genuina e soprattutto fedele di un puro ed incontaminato rock’n’roll.
Ascoltate lo stupendo, arrugginito hammond che accompagna l’iniziale “Word from the bird” o gli stralunati coretti “yeah-yeah” della Rollingstoniana “Product of DK”, tosta e pulsante, e ditemi se non sembra di aver ritrovato un vecchio album smarrito in qualche cassetto, uno di quelli di cui avete letto sui libri della storia del rock o che avete sentito citare da qualche musicista attempato.
Un flusso gioioso di energia solare, carnale, spensierata, che spinge ad agitarsi seguendo linee melodiche semplicissime ma dannatamente divertenti ed indovinate, con il giusto grado di ruvidità polverosa. Peschiamo a caso la saltellante “Mob rule” dove aleggia lo spettro dell’Elvis più elettrico, il pop-rock bubble-gum “I remember the days”, l’atmosfera beat di “I want you” e quella nervosamente stomp’n’blues di “What the young people want”, ma c’è anche il momento di fermarsi a riflettere accarezzati dall’acre tenerezza di “Baby, I got time”, che aspira ad essere una “Angie” dei tempi moderni.
Un paio di spazi vengono lasciati alle pennellate di psichedelia sixtiees: il leggiadro strumentale “The bluverture” in odor di Beatles e la torrida jam-song “New slough”, che insieme ad un taglio proto-hard presenta irresistibili duetti tastiera-lead guitar ed una bella coda trippy da far invidia a tanti improvvisatori stoner.
Mentre gran parte delle giovani formazioni fanno a gara a chi ce l’ha più innovativo, i simpatici The Blue Van pubblicano un vero revival dei primordi del rock e risultano più spontanei delle inquadrate truppe d’assalto moderniste. Certo non coinvolgeranno folle oceaniche, ma forse chi ascolta cose del genere Black Moses, Soundtrack of Our Lives, Instant Flight e affini, sarà in grado di apprezzarlo a dovere.
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