Wolfmother, Rival Sons, The Answer, Graveyard, Electric Mary … sono tutti nomi di
band capaci di far rivivere, grazie a dosi imponenti di vitalità espressiva immaginifica e catalizzante, l’epopea dell’
hard rock settantiano, un periodo storico talmente diverso da quello che stiamo vivendo da stimolare più di qualche riflessione (e non solo di natura artistica) sui motivi che hanno condotto a una sua diffusa celebrazione.
Niente paura … eviterò di addentrarmi in problematiche dissertazioni sociologiche e mi limiterò a segnalare al pubblico dei
retro-rockers questi ottimi
Palace Of The King, una nuova “scoperta” della Listenable Records da inserire nel (lungo) elenco degli epigoni di un suono evidentemente immarcescibile, in cui, però è ancora una volta “l’attitudine” a rappresentare il decisivo ago della bilancia.
Ebbene, i nostri australiani, con “White bird / burn the sky”, questa “strana” peculiarità dimostrano certamente di possederla, e in una quantità tale da farli accostare senza troppi timori reverenziali proprio ai gruppi “illuminati” che trovate citati all’inizio della disamina.
La voce Plant-
iana (a tratti mi ha ricordato pure un po’ Robert Harvey dei The Music, ma con appena un pizzico di paranoia Farrell-
esca nell’impasto timbrico) di Tim Henwood vi condurrà per mano in questo “viaggio nel tempo” i cui le chitarre di Leigh Maden e Matthew Harrison bruciano d’intensità
blues e di acida elettricità e dove il basso di Andrew Gilpin e la batteria di Anthony Troiano pulsano come un cuore smanioso e appassionato, il tutto assemblato con le tastiere
vintage di Sean Johnston a fungere da sobrio, fascinoso ed efficiente collante.
Le dieci canzoni del programma possono sembrare variazioni di temi piuttosto “familiari” e il cordone ombelicale con i venerabili maestri del settore (Zeps, Deep Purple, Pink Floyd, Faces, Grand Funk …) appare abbastanza evidente e tuttavia il rischio di “parodia” è sempre scongiurato per merito d’interpretazioni assai “sentite” e solerti, degne di una formazione emergente che non si vuole limitare esclusivamente alla contemplazione dei suoi numi tutelari.
“Take your medicine”, “No chance in hell”, il
groove irresistibile di “Another thing coming”, “Burn my bridges”, “Devil's daughter” e “If it ain't broke” e poi ancora le magnetiche scorie
psych della favolosa “White bird (Bring your armies against me)” e della scura e densa “Ain't got nobody to blame but myself”, senza dimenticare la
jam tra Aerosmith e Jack White (suonata con la sezione ritmica dei RATM) di “Get back up (Burn the sky)” o i fiati e la melodia accattivante di “Leave me behind”, sono tutte ostentazioni assai eloquenti di sensibilità, tecnica e capacità compositiva, al cospetto delle quali è francamente difficile rimanere impassibili, anche per chi, pur amando profondamente certe sonorità, comincia a essere leggermente scettico di fronte ad un
trend che non accenna ad attenuarsi.
Un bell'albo, quindi, che inserisce i Palace Of The King nel ristretto novero delle “vere” promesse del
rock “classico”, a cui si chiede, allo scopo di garantire una produttiva “continuazione della specie”, di aggiungere alla già brillante proposta un ulteriore pizzico di personalità, indispensabile per trasformarli in una risoluta forza trainante dell’affollato movimento.
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