Come sanno anche i sassi, nei primi anni 90 non passava giorno in cui non giungevano notizie, band ed uscite provenienti dalla Svezia. Un filone, quello death, che non sembrava esaurirsi mai e che obbligava i “poveri” appassionati a rincorrere ogni minima voce e studiare attentamente le pubblicazioni dell’epoca per orientarsi al meglio.
I
Wombbath appartengono di diritto alla prima ondata proveniente dal Mar Baltico (il loro primo demo risale al 1991 e il primo EP all’anno successivo) ma non conobbero la fama di molti dei loro conterranei finendo per rimanere nelle conoscenze dei super appassionati che con difficoltà eran riusciti a reperire l’eccellente debut del 1993 “Internal caustic torments”.
Poi, complice anche la contingenza di un mercato saturo all’inverosimile, lo scioglimento e i progetti più o meno fortunati intrapresi dai singoli membri e l’oblio. Questo fino ad un paio di anni fa quando la Pulverised Records decise di ristampare con abile mossa commerciale l’ormai introvabile debut arricchendolo dei lavori del 1991 e 1992.
Evidentemente qualcosa si è mosso, la scintilla nuovamente scoccata, ed ora con una formazione pesantemente rinnovata – il solo Håkan Stuvemark come
trait d’union col passato – un nuovo inizio con il qui presente “Downfall rising”, mixato da Jeramie Kling e masterizzato da un “certo” James Murphy.
Personalmente non nutrivo molte aspettative, ma durante l’ascolto ho avuto modo di ricredermi sulla bontà del cd. “Downfall rising” è un album intenso, avvolgente, con un mood ritmico incessante, i Wombbath non sentono affatto la necessità di correre a tavoletta per mezzora filata come unica soluzione per risultare brutali ed efficaci. La dimostrazione, se mai ci fosse qualcuno ancora da convincere, che anche coi mid-tempo si può rompere allegramente il fondoschiena.
L’album gira che è una meraviglia, completamente assenti filler o brani di basso profilo, l’accoppiata iniziale ha un approccio “scolastico”, ma, nella loro linearità, martellano incessanti.
La parte centrale, secondo la mia opinione, contiene gli episodi più felici: il claustrofobico incedere di “I am the abyss”, la sofferenza interiore di “Fall of the week” (in cui riecheggiano soluzioni care ai primissimi Hypocrisy) e le dissonanze di “Putrid and bound” faranno felici molti appassionati del genere.
Sebbene avrei preferito trovare qualche assolo in più, non posso per questo diminuire il valore di un disco in grado di cogliere nel segno, capace di non rifugiarsi in soluzioni di comodo per “riempire minuti”, in cui ogni singolo brano è parte di un insieme.
Quello che si dice un rientro con stile.
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